Il regista di Tutta colpa di Voltaire torna ad esplorare una Francia decentrata nelle storie di due ragazzi della banlieue parigina, Krimo e Lydia, ed il microcosmo che gira loro intorno, fatto di barriere di cemento, di comunità multietniche, di polizia repressiva e di linguaggi a metà tra lo slang e il rap. È L’esquive – La schivata, film visto in concorso alla ventiduesima edizione del Festival di Torino e miglior opera prima a Venezia. Chiaro esempio di cinema viscerale ed implosivo, L’esquive ben esprime il meticciato culturale della banlieue quasi fosse stata nascosta una macchina da presa volta a riprendere la vita quotidiana di questi ragazzi di periferia, colti nei loro impegni scolastici, extra-scolastici e nelle loro zuffe quasi sempre soltanto verbali. Perché è il linguaggio a farla da padrone nella sceneggiatura di Kechiche e Lacroix, dove fraseggi musicali si sovrappongono a formare un’unica melodia, unico linguaggio di chi non ha altro mezzo per imporre la sua volontà, pur cercandolo forse nell’arte della rappresentazione teatrale, vista come unica e sincera occasione per spaccare le barriere invisibili di quella prigione cementizia in cui sono relegati. La versione italiana, chiaramente doppiata, non esprime quello che è uno dei punti di forza di questo film, il linguaggio appunto, così musicale e ritmato, ma, come fanno sapere i vertici Mikado, sarebbe stato improponibile una versione originale sottotitolata. Partiamo quindi con la consapevolezza di vedere un film che più di altri è stato penalizzato dal suo “sdoganamento”.
L’insegnante di Lydia e Krimo allestisce con i suoi allievi una recita scolastica sul testo di Marivaux Il gioco dell’amore e del caso, dove un arlecchino dichiara il suo amore ad una damigella – indiscutibile che la prima donna sia Lydia – grande amore segreto di Abdelkri, detto Krimo, che farà di tutto per mescolare realtà e finzione arrivando a comprare la parte di arlecchino. Ma Krimo non sa recitare, parla cantilenando con lo sguardo sempre basso, un po’ per la vicinanza di Lydia, un po’ perché non ha mai aperto un libro in vita sua. Interessante la scelta degli autori di usare un testo come quello di Marivaux, un racconto dove i servi si travestono da padroni e padroni da servi, un chiaro messaggio sia per noi spettatori, sia per lo stesso Krimo. «Esci da te, compiaciti di come sei!», continua a gridare incessantemente la sua insegnante a quel ragazzo sempre più immobile, imbarazzato, contrito, quasi dispiaciuto di non essere “qualcosa di più”, per non riuscire a musicare il suo linguaggio come la sua Lydia meriterebbe. Un mondo adulto e responsabile quello dei ragazzi di Kechiche, ripresi nel loro habitat di vera e propria prigionia sociale, uno status che si rispecchia anche nei rapporti umani. È forse l’arte l’unico momento di fuga per chi ne può usufruire, ma per chi non ha nemmeno questa non c’è che la prigionia, non resta che la rabbia, la vergogna di non conoscersi abbastanza per uscire da sé.
di Alessio Sperati