A quattro anni dal successo de L’eternità e un giorno che gli valse la Palma d’Oro a Cannes, Theo Angelopoulos torna sul grande schermo con La sorgente del fiume, primo capitolo della trilogia d’amore e guerra con cui il regista greco si propone di rileggere la storia recente del suo popolo. Un progetto ambizioso e importante per raccontare i tragici errori dei governi in Europa nel corso del XX secolo. In questo primo film Angelopoulos dimostra pienamente di essere figlio della cultura greca: la sceneggiatura, scritta a sei mani con il nostro Tonino Guerra e Petros Markaris, segue infatti lo schema e le caratteristiche della tragedia classica ellenica. A cominciare dal prologo quando avanzano sulla scena, ripresi con un suggestivo piano sequenza, i profughi greci fuggiti dalla città ucraina di Odessa, invasa dall’Armata Russa nel 1921. La loro immagine, riflessa nelle acque del fiume presso cui si stanzierà la nuova comunità, fa potentemente da sfondo alla voce narrante che ci introduce all’episodio (il cuore della tragedia) e ci presenta i personaggi. Tra questi ci sono Heleni (Alexandra Aidini) ed Alexis (Nikos Poursanidis), il cui amore è ostacolato dal padre di lui, Spiros (Visilis Kolovos), che, rimasto vedovo, vorrebbe che la ragazza diventasse sua moglie. Il giorno della cerimonia però i due giovani fuggono a Salonicco dove nel corso degli anni saranno travolti dagli eventi storici: la dittatura; la crisi economica che costringerà Alexis a emigrare in America lasciando soli Heleni e i due figli; il Fascismo; la Seconda Guerra Mondiale.
Il drammatico epilogo vedrà i loro figli combattere e morire su fronti opposti nella guerra civile del 1949. Si chiude qui la prima parte della trilogia, coprodotta da Amedeo Pagani insieme all’ateniese Angelopoulos Production, ai francesi di Bac Films, a Rai Cinema. Il secondo film inizierà con la morte di Stalin nel marzo del ’53 e terminerà con la fine della guerra in Vietnam nel 1974; il terzo andrà dal crollo del Muro di Berlino ai giorni nostri sullo sfondo di New York. In questa prima opera la costruzione scenica è realizzata in modo teatrale: dal più piccolo gesto alla distanza tra gli attori, dal funerale di Spiros sulle acque del fiume all’ inondazione del villaggio, dal candore del bucato steso sulla “Collina delle lenzuola” alle bellissime scene corali, tutto appare premeditato come se di volta in volta il sipario dovesse calare su una situazione e subito dopo levarsi sulla situazione seguente, complice l’uso continuo del piano sequenza.
Ogni immagine potrebbe diventare il soggetto di un quadro grazie alla splendida fotografia di Andreas Sinanos. Anche la musica svolge un ruolo importante nel sottolineare l’autonomia delle scene: al pari dei canti del coro della tragedia classica (gli stasimi), nel film l’apparizione dell’ orchestra guidata dal partigiano Nikos (Giorgos Armenis) segna la fine di una scena e l’inizio di un’altra sulle note delle belle melodie composte da Eleni Karaindrou. Di fronte a tutto ciò è impossibile non rimanere razionalmente affascinati dalla maestria di Angelopoulos. A farne le spese sono però le emozioni, in più punti soffocate dalla, sia pure superba, accademicità del regista. Sono nella parte finale c’è spazio per i sentimenti e il pathos. Per il resto i dialoghi sono solo funzionali ai movimenti e gli stessi attori appaiono poco “amati” dal regista: la loro individuale capacità espressiva è sacrificata dalla forma, costretta nell’ unico registro del dolore sommesso. Traspare invece l’affetto dell’autore per il mondo dei musicisti, un mondo vulnerabile e poetico dalla cui creatività Angelopoulos è con grande evidenza attratto.
di Patrizia Notarnicola