Durante la conferenza stampa dell’ultima fatica di Tim Burton, a pochi giorni dal tanto atteso Charlie e la fabbrica di cioccolato, una delle domande più divertenti e argute verteva sull’insistenza da parte del regista di mascherare la sua compagna prima da scimmia, poi da strega e infine, anche se in questo presta solo la voce, da cadavere con riferimento alla logica freudiana. In effetti il cinema di questo grande interprete dell’immaginazione burlesca e romantica, gotica e grotesque è pieno di travestimenti, trucchi, effetti, stratagemmi, intuizioni, sempre però condotti con la leggerezza di un fanciullo e l’esperienza, in senso tecnico, del veterano. Uno degli episodi più interessanti e curiosi della raccolta Morte malinconica del bambino ostrica si chiude con la scelta di un mostro di travestirsi da umano: questo camuffamento implica sempre nel personggio un imbarazzo sconvolgente (si pensi a Edward mani di forbice ospitato dalla dolce rappresentante della ditta di cosmetici, o il desiderio di vestire i panni di Santa Claus del malincomico Amleto Re delle Zucche, ancora l’incapacità di Vincent di comportarsi da bambino normale) tanto da travolgerlo in esperienze ai confini con la realtà, in fuga da un mondo di mostri, gli esseri umani. The Corpse Bride arriva dal resoconto di un amico che decide di raccontare al folletto di Burbank una favola di origine ebraico/russa con protagonisti un uomo, una donna, un matrimonio e un cadavere. Tratteggiato nei consueti contorni da romantiscismo nero, come se le tele di celebri autori spossassero le invenzioni artigianali di Mario Bava, il film, ancora girato con la tecnica “stop-motion” (passata sotto le mani dei vari O’Brien, Pal e Harryhausen) descrive due ambienti, regni, assolutamente opposti: l’universo dei vivi, sfumato nelle tinte fredde di una città che ha molto a che spartire con la Praga di un tempo, e il pianeta dei morti, fotografato con toni aciduli da club underground, tra revocazioni citazionistiche mai fine a se stesse (Beetlejuice su tutte) e tocchi di abilità coreografica da signore dei burattini.
Come in Nightmare Before Christmas, anche qui la passaeggiata del protagonista, un misto fra il lontano Vincent cresciuto e Johnny Depp, si conclude in un bosco stavolta innevato; Victor “diverso burtoniano” quasi per scherzo recita la formula di un matrimonio, che secondo i genitori degli sposi s’ha da fare a tutti i costi, dinanzi ad un ramo coperto da un manto bianco e come per magia, dalle viscere della terra (ri)sorge una spedida morta delusa dalle promesse di un’unione non avvenuta. Sulla scia dei musical precedenti e di una presenza melodica molto più approfondita (la scena nella quale i due protagonisti improvvisano una sonata al pianoforte appartiene ad una delle immagini più riuscite del cinema di Burton) l’autore tocca tematiche importanti quali la spiritualità, il concetto di “relazione” con una leggerezza e un umorismo geniale da lasciare a bocca aperta. In ogni opera di questo cineasta si celebrano i sogni e gli incubi dei bambini di tutto i pianeti con un’attenzione rivolta al diverso e al suo desiderio di integrarsi in una società che non lo accetta. Capita raramente che un autore per quanto bravo, peschi dal cilindro pellicole di grande intensità tutte differenti: l’ultimo indimenticabile Big Fish, dettato dall’esigenza di conoscere un uomo (suo padre) venuto a mancare improvvisamente; il Dahl di prossima uscita, prendendo il necessario dalla favola cinica e briosa di un affermato scrittore per l’infanzia senza scadere nella melassa da prodotto per un certo pubblico; infine questa poetica e travolgente lirica macabra dove i defunti ridono e cantano e i vivi si annoiano a morte. Il progetto, nato in collaborazione con Mike Johnson (sostituto di Henry Sellick) vede l’inedita collaborazione in fase di sceneggiatura fra Billie August, dotato di uno spirito moderno, e la storica partner Caroline Thompson, più propensa invece per uno spiccato romanticismo. Non mancano le vecchie conoscenze celate in sequenze o in dialoghi ai quali si deve prestare attenzione: Cristopher Lee incarnato da una sorta di vescovo quasi uscito da una novella di Edgar Allan Poe o un vecchio film su Dracula, il cane di ossa che si ricompone come per l’invenzione censurata di Taron e la pentola magica bravissimo a stare a cuccia e a scondinzolare senza che gli si chieda di più e il voluto e fantastico “lapsus linguae”.
di Ilario Pieri