Il mondo vive ormai un incubo senza fine. Da una parte gli “walker”, i camminatori non-morti, gli zombie; dall’altra quel che resta dell’umanità, raggruppato in un quartiere fortezza dove, paradossalmente, si sono conservate anche le gerarchie sociali. Nel grattacielo di “Fiddler’s Green” si rintana l’ultimo baluardo della classe dominante con il politicante Kaufman (Dennis Hopper) che vigila affinché tutto rimanga così gestendo traffici di merci e di uomini; al di sotto ci sono i bassifondi con abitanti costretti a cibarsi di topi per sopravvivere e un gruppo di mercenari guidati da Riley (Simon Baker) e Cholo (John Leguizamo) che fanno il lavoro “sporco”, compiendo missioni di recupero oltre le barricate protetti da un grosso veicolo blindato, il “Dead Reckoning”. Mentre a Fiddler’s Green cresce il malcontento per una vita da reclusi e per i sogni contrastanti di Riley e Cholo – uno interessato alla libertà, l’altro al potere -, fuori gli zombie sembrano essere soggetti a una qualche forma di evoluzione: si sono dati un capo e hanno imparato a organizzarsi e a comunicare. Non stona in un cast di alto livello la presenza di Asia Argento nel ruolo di Slack, ex-prostituta pronta a battersi per la causa di Riley; la sua presenza è forse un favore reciproco per premiare l’amicizia decennale tra il padre Dario e il regista degli zombie. Con La terra dei morti viventi George A. Romero chiude, a distanza di vent’anni, quella anomalia creativa che negli anni ’60 rivoluzionò il modo di fare horror. A quel primo film del 1968 girato in bianco e nero e con centomila dollari, La notte dei morti viventi, seguirono infatti Zombinel 1978 e Il giorno degli Zombi nel 1985. Romero non ha mai fatto semplici horror da intrattenimento, ma ha da sempre utilizzato i suoi zombie come un orrorifico prisma attraverso cui osservare i mali sociali del suo tempo, lui che da anni si considera una figura secondaria alla Pancho Villa, un cineasta allo sbando.
Oggi come allora il maestro dello zombie-horror non si risparmia di picconate verso gli stati sociali e il suo governo e, a distanza di vent’anni, dopo aver spostato il mirino dai sistemi di comunicazione di massa (1968) al consumismo (1978), da bravo demagogo arriva a sparare sui mali del “globalismo”, con una “notte” di provincia che diventa un “Mondo” intero e in un film che è tutto un’allegoria sociale e che ci porta ironicamente a parteggiare per i Morti Viventi, che avanzano compatti contro i vertici del potere come in una macabra versione del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza. Patrizi e plebei, signori e servi, borghesi e proletari, oppressori e oppressi, in costante opposizione gli uni con gli altri, sono per loro natura portati ad uno scontro che spesso sfocia o in una ricostituzione sociale rivoluzionaria o nella rovina comune delle classi contendenti. L’uso di personaggi e situazioni simboliche da parte di Romero è esemplare nella creazione di un Manifesto socio-progressista: il Capitalismo (qui integrato nella persona Kaufman) si autodistrugge con la sua evoluzione: se l’industrializzazione trasforma subdolamente i proletari in consumatori di massa, li dota di tecnologia (il Dead Reckoning) pensando così di “blindare” le barriere sociali in un programma di “educazione al consumo”, esso cambia invece i loro standard di moralità borghese e di necessità primarie. Anche la paura verso lo zombie è una paura sociale: è la stessa dell’americano medio post-11 settembre, quella cioè verso una forza organizzata e priva di moralità borghese o sentimento religioso cristiano, provata oltretutto da chi sa di essere ormai, statisticamente, una minoranza etnica. La satira di questo “ragazzo” di Pittsburgh non ha dunque perso il suo lustro, è diventata forse un tantino più pessimistica, come dargli torto, al punto da rimpiangere quei sessantottini malati di TV e centri commerciali – gli zombie appunto – ed oggi, dopo vent’anni, ci troviamo a fare il tifo per loro. Solo Romero poteva fare un miracolo del genere.
di Alessio Sperati