Ancora l’acqua e l’abbandono. Una barca come casa e un amore come un mondo intero. In mezzo gli oggetti di sempre: ami e coltelli, canne e lenze per pescare dentro e fuori di sé e non solo metaforicamente. Non c’è più l’amore cieco srotolato di crudezza in crudezza ne L’isola ma c’è un altro amore, sordo. L’amore di un ultrasessantenne per una sedicenne che vive con lui forse da quando era bambina su un peschereccio lontano da tutto. Finché il mondo di fuori non irrompe stridendo sulla sua adolescenza matura e ogni prospettiva, ogni sguardo cambia. Lei rinasce, lui non vuole sentire. Lei si ribella, lui rischia il tutto per tutto e, alla fine, chi libererà chi? Perché anche se la storia di questo ultimo lungometraggio del sempre sorprendente coreano Kim Ki-Duk, L’arco, in arrivo nelle nostre sale, una sua evoluzione lineare ce l’ha, persino più nitida che in altri suoi film, la fine non è mai certa. Solo le apparenze lo sono nelle sue storie, qui solo la sparizione del vecchio ma dopo una vera prova nuziale e l’inizio di una nuova vita per la sedicenne che affonda la sua casa acquatica ma non affonderà la sua memoria. Le apparenze e la crudeltà. Puntuale, sempre attesa nei suoi film eppure sempre imprevedibile, declinata nei modi inattesi e sofisticati della psiche: sempre lontanissima da chi guarda eppure sempre nota, segretamente, terribilmente familiare. In una parola: incancellabile.
Come, del resto, ogni storia raccontata da questo signore che non smette di dimostrarci che la vita è senza pietà ma che non smette di credere che bisogna vivere cavalcando la crudeltà, la rabbia, le tensioni: le proprie e quelle degli altri. L’arco del film, un arco che può essere strumento di morte e strumento di gioco, strumento di predizione del futuro e soprattutto incredibile strumento musicale (con struggenti musiche di Kang Eun-li come colonna sonora), è l’immagine sintetica di questa idea: «Come un arco voglio vivere sempre in tensione, nonostante tutto e finché non morirò». Così ci ha detto Kim Ki-duk quando è venuto a Roma con alle spalle la solita mole di critiche negative che il suo paese gli tributa compensata dagli apprezzamenti spesso appassionati di un Occidente che, da quando lo ha scoperto (e non è stato poi troppo tempo fa) non fa che applaudirlo e premiarlo tra un festival e l’altro. A volte con riserve, certo. Ma il risultato non cambia. E lui, in proposito, dice: «In Europa i miei film piacciono perché qui si sa guardare al mio cinema con tutto il corpo, non solo con la mente ma anche col cuore. Mentre dalle mie parti risulta più difficile, il rapporto è più complicato e c’è persino chi mi accusa, ed è la critica che più mi ferisce, di voler mostrare a tutti i costi all’Occidente che cosa è l’orientalità».
«Ma, a parte ciò – continua -, penso che se i miei compatrioti parlano male dei miei film è perché non li capiscono e, dunque, il problema è loro, il limite è loro, non mio. D’altra parte a me non interessa andare incontro agli spettatori viziati, voglio parlare della vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più oscuri e violenti e non mi faccio suggestionare dai gusti del pubblico. Semmai è il pubblico che deve venire da me e non viceversa». Netto e chiaro Kim Ki-duk, sempre pronto a sferzare la nostra pazienza, il nostro senso della misura, il nostro pudore, la nostra capacità di sopportazione per spingerci laddove probabilmente mai andremmo spontaneamente, verso il basso e verso il buio: in un punto in cui una rivelazione è però possibile. Un’ illuminazione, una, tante risposte. Ma tutte individuali, utili solo una volta, non vendibili, non riciclabili, non istruttive. Stavolta è l’arco che ci costringe a toccare con lo sguardo crudeltà e tenerezze impensate, che ci tende come le sue corde in un universo visivo dalle coordinate già note ma, siamo certi, che nessuno dimenticherà più quella barca col volto di Buddha e quell’altalena sospesa sull’acqua che ondeggia tra una freccia e l’altra, sospesa tra vita e morte.
di Silvia Di Paola