L’esordio alla regia di Alessandro Angelini è stato il vero fiore all’occhiello della prima edizione della Festa del cinema di Roma. In barba alla presenza di star internazionali e di grandi prime cinematografiche, L’aria salata, primo lungometraggio dopo un’ esperienza forgiata sul documentario, contribuisce a dare senso e qualità alla sezione in concorso. Questo piccolo gioiello, realizzato con un budget minimo ma con una sicura consapevolezza e con una profonda umanità, ha conquistato grazie alle forme pulite, essenziali, quasi spoglie attraverso le quali si viene introdotti nei meandri di un dolore personale eppure comprensibile e condivisibile. La vicenda di Fabio, educatore carcerario che tra le sbarre si troverà casualmente faccia a faccia con un padre sconosciuto e condannato per omicidio, evidenzia il principio particolare ma non poi così insolito di una distruttiva condivisione di colpa tra chi ha compiuto un errore e coloro che ne hanno subito gli effetti negativi. Tragico, doloroso senza mai cadere nell’eccesso di un facile e prevedibile escamotage narrativo ed emozionale, L’aria salata porta in sé le tracce evidenti di una scrittura di qualità, che si pone come scopo quello di mostrare l’altro volto del cinema italiano, ossia quello estraneo alle vicende pseudo-adolescenziali/ esistenzialistiche ripetute e prodotte fino allo stremo. Forte della sua esperienza di documentarista, Angelini conosce la naturale drammatica forza della realtà, capace di colpire in profondità senza forzare troppo la mano nella sceneggiatura come nella realizzazione delle riprese. E forse è proprio per questa consapevolezza che le immagini ci giungono quasi prive di qualsiasi artificio cinematografico, la macchina non si avverte come elemento intrusivo o lente dilatante ma come un semplice prolungamento dello sguardo su di una vicenda umana casualmente “spiata”. Angelini sceglie di girare in 16mm e quasi completamente con la macchina a mano, riuscendo a restituire immagini dal coloro quasi sgranato ed una sensazione di grande intimità. Come risultato ci troviamo all’interno di uno scontro tra padre e figlio dove vengono messi in gioco amore ed odio, rabbia e pietà, indifferenza e nostalgia per esaltare ancora di più una riflessione sul desiderio di normalità e sugli effetti che la mancanza di questa può comportare. Se da una parte colpisce Giorgio Pasotti per la maturità artistica con la quale riesce a sostenere un ruolo complesso e dalle numerose e repentine mutazioni emozionali, Giorgio Colangeli ( attore teatrale dalla grande esperienza e vincitore del premio per il miglio protagonista maschile alla Festa di Roma) tocca nel profondo per la sua capacità di rappresentare un uomo imprigionato nella sua stessa maschera. Duro senza mai essere eccessivamente cinico, ed intenso senza essere pietoso.
di Tiziana Morganti