Secondo Schopenauer “La vita e i sogni sono i fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.” Per Michel Gondry invece i sogni sono soprattutto le evoluzioni di una mente immacolata e creativa, capace di intervallare e sovrapporre il ritmo regolare o casuale di questa lettura. Dopo la parentesi americana, il regista di Eternal Sunshine torna in Francia per dare vita al suo film più autobiografico. Libero dalle costrizioni e dalle scelte stilistiche di un partner d’eccezione come Charlie Kaufman ( Il ladro d’orchidee, 2003), Gondry dimostra di saper gestire un film in tutte le sue fasi evolutive, imponendo uno stile personale e onestamente onirico capace di collocare la sua storia al di fuori di qualsiasi genere o cifra stilistica. Se con Eternal Sunshine aveva sfiorato atmosfere surreali, per realizzare L’arte del sogno si getta in esse senza alcun risparmio attingendo a piene mani dal un personale archivio. Utilizzando il suo alter ego Gael Garcìa Bernal(Stéphane), Gondry costruisce con una attenzione ed una cura artigianale un universo che vive e trova sfogo solo attraverso una continua osmosi tra realtà ed irrealtà, mentre grazie all’eterea figura di Charlotte Gainsbourg ( Stéphanie) prendono vita delle favole realizzate con ago e filo.
La materia dei sogni è sempre stata una grande fonte d’ispirazione per l’attività cinematografica. Da Vanilla Sky (2001), Eyes Wide Shut (1999) a Mulholland Drive (2001) il gioco sogno/realtà ha rappresentato il fulcro intorno al quale si sono totalmente sviluppate le vicende. Eppure, nonostante David Lynch possa essere considerato come uno dei registi più visionari, Gondry affronta la materia con una freschezza ed un’ innocenza assolutamente nuova per le strutture narrative conosciute fino a questo momento. Nella confusa vita di Stéphane, diviso tra l’amore per Stéphanie ed il terrore di non essere ricambiato, il sogno non raggiunge mai stati di oscura espressione delle proprie paure, nonostante in ballo ci sia anche l’aspetto distruttivo di una mente creativa. In Gondry l’incubo diventa terreno di gioco, dimostrazione delle proprie insicurezze attraverso un mondo fatto di cartone e pannolence cucito grossolanamente che tanto ricorda alcune animazioni russe. Per quanto riguarda il resto, tutto ci conduce verso immagini che mostrano le modalità di una mente che edifica fantasie. In questo caso il sogno è soprattutto un luogo dove correre a rifugiarsi. Un posto da dove osservare il mondo così come vorremmo che fosse. Una stanza dei giochi dove è possibile ridisegnare una realtà che confonde a seconda delle proprie necessità. Un sogno dal fascino rassicurante ma dalla vincolante attrattiva. Unica fonte d’inquietudine è la consapevolezza che il mondo onirico troppo spesso si sovrappone a quello reale, distorcendo la percezione della realtà e viziando la capacità d’azione.
di Tiziana Morganti