C’è poco da fare: dopo un capolavoro assoluto come Elephant, Van Sant finisce la trilogia cominciata con Gerrytra le malizie di uno sperimentalismo stilistico già assodato, la fotografia sublime di Harris Savides, ma come già gli mancassero i manierismi di Psychoo la deriva hollywoodiana di Scoprendo Forrester. Piccoli segnali: il ricordo di una villa a Portland in cui il regista viveva notti inquiete, la conoscenza biografica fugace di un Kurt Cobain già disastrato e la tassa di dover almeno indugiare su forzati primi piani sul nuovo divo Michael Pitt, già efebico e in odore di maledettismo nel The Dreamers bertolucciano. Nessuno sa come passò gli ultimo giorni il divo dei Nirvana, che poi nel film si chiama Blake e potrebbe essere solamente un’artista che ha bisogno di aiuto, vivendo in un ghiacciato vuoto esistenziale volutamente catatonico. Poco importa di un presunto e non autorizzato biopic, in questi novantasette minuti di agonia non c’è quello che si potrebbe aspettare un pubblico non cinefilo, ovvero la saga autodistruttiva e chiassosa di un gruppo di giovani sotto i trenta dediti al trito cliché di “sesso, droga & rock and roll”, ma un esemplare acquario televisivo. La quotidianità di tre giorni in piano-sequenza seguono immagini frammentate, grigie, nemmeno poi tanto tormentate (anche se Van Sant, come un cantore moderno della romanziera Highsmith si fa “poeta dell’inquietudine” senza gli escamotage letterari di una maestra di “genere”) in senso strettamente visivo (non si vedono siringhe, né polvere sospetta, né autocompiacimenti lisergici), con la macchina da presa che segue da lontano un ragazzo affascinante, forse non bellissimo e la sua accolita di amici che si evitano come in un reality show volutamente mortuario.
Blake passeggia nei boschi, non parla, appena appena respira, grugnisce e ogni tanto enuncia piccoli coccodrilli sull’umana condizione e poi, come in un esperimento “troppo reale” deve dar conto delle sue azioni e della sua vita ad un consulente delle Pagine Gialle e mangiar male. Primo Blocco. Gli altri residenti della villa stanno in altre stanze, con altre voci, le loro, ripetute, che cercano un contatto con il primo blocco (Blake), in una sorta di eterno ritorno. Secondo Blocco. Anime indecise anche sessualmente che tra un sonno e una veglia e una pomiciata, anestetizzano le loro piccole meschinità, in attesa di un evento: la morte di qualcuno o anche una telefonata, una struggente ballata, un disco cantato a fior di labbra. Se i cinefili duri e puri non catalizzassero la loro attenzione solo sullo stile filmico di Van Sant, notevole e da lezione accademica, ma nel tempo un tantino stucchevole (per molti noioso e basta?), potrebbero forse cogliere il sarcasmo, il comico delle nostre vite sballate e anche il versante “morbosetto” di chi anche per scelta sentimentale non riesce a dimenticare un attore amatissimo come River Phoenix (Belli e dannati, o meglio in originale My Own Private Idaho accanto all’ambiguo e macho Keanu Reeves, film del 1991, che a dato a G.V.S. la notorietà internazionale). Ed inoltre di come, mimando un reality e scardinando la poetica “maudit” dei re rocker del palcoscenico anni Novanta, si costruisce un pezzo di vita, orrenda e priva di bellezza, del nuovo millennio. Se i registi italiani sfruttassero una italiana HBO per fare tutto questo staremmo lì in ammirazione religiosa…
di Vincenzo Mazzaccaro