Che il cinema indipendente sia ormai il bacino più interessante della produzione americana è ormai indubbio. Tutte le idee, le novità, le realizzazioni più audaci non possono trovare sbocco nei limiti moraleggianti e politicamente corretti delle major così, paradossalmente, è la produzione a piccolo budget a concedere maggiori libertà artistiche. Laurel Canyon è un microcosmo. Lo è sempre stato e così è sempre stato rappresentato: un luogo simbolo attraverso più di mezzo secolo che è cambiato, si è evoluto assieme alle mode, ma è rimasto sempre fedele a se stesso. Ed è proprio la storia di un microcosmo quella raccontata dalla regista Lisa Cholodenko: il racconto di ciò che avviene in pochi giorni all’interno di una casa popolata da creature singolari, persone talmente lontane da sembrare appartenenti a specie diverse. Jane è una mitica produttrice musicale. La sua vita è stata caratterizzata da ogni sorta di edonismo e nessuna repressione. Suo figlio Sam ne ha repulsione.
Intorno al classico dramma dell’incomunicabilità generazionale ruotano altri personaggi più o meno importanti per i due. Il cast è davvero di tutto rispetto: Frances McDormand, sempre fantastica, sfoggia un look “all american” anni ’70 e correda la sua solida interpretazione di tutta una serie di espressioni facciali che vanno dal divertito al materno, al grottesco; dopo essere stata la madre restrittiva di William in Quasi famosi, passa dall’altra parte della barricata mostrandosi nuda senza paura (nonostante l’età e il volto singolare, è sempre bellissima) e gioca con le stranezze del suo personaggio. Christian Bale (che dovrebbe sempre recitare senza la camicia) è un tipo tutto d’un pezzo, a volte addirittura troppo rigido, con il rischio di cadere nello stereotipo; Kate Beckinsale esplora nuovi territori con la sua recitazione misurata, gli occhioni e il corpicino di una ragazza per bene, e si cala in un ruolo multiforme e ardito.
Ad Alessandro Nivola è toccato probabilmente il personaggio più divertente del film, quello che prende la vita come viene, l’eterno rilassato, l’artista senza regole, sempre troppo poco cresciuto per affrontare un problema, a volte abbastanza sensibile da saper come prendere le persone. È davvero lui a cantare le canzoni del suo gruppo nel film. Natasha McElhone è l’immagine del desiderio: bella e lontana, presente e irraggiungibile come lo sono i sogni repressi. Anche il suo ruolo però è alquanto prevedibile e già visto: fluenti capelli che cadono disordinatamente attorno al bel viso e sulle spalle, labbra carnose e fameliche, occhi fissi sull’oggetto desiderato e sorriso malizioso. L’insidia, la tentazione fatta persona, ma poco efficace. Intorno all’altalena dei desideri, degli impulsi, delle sensazioni mai provate prima si snoda il piccolo racconto di Laurel Canyon: una sorta di crescita interiore attraverso la rottura degli schemi certi, la diseducazione di Sam e Alex, una deliziosa parabola sull’ironia come sale della vita. Purtroppo il doppiaggio italiano è molto penalizzante, ma la scena finale, con il materassino gonfiabile, è assolutamente eccezionale.
di Federica Aliano