Aveva stupito un po’ tutti quando, nel 2001, esordì con quel bellissimo L’uomo in più. Ora, a tre anni di distanza – e dopo un passaggio a Cannes57 – Paolo Sorrentino lascia nuovamente un gran segno di sé con Le conseguenze dell’amore, film che – spiega lo stesso regista napoletano – «Come il precedente, tratta in maniera molto sotterranea quello che mi interessa più di ogni altra cosa, ovvero il tema dell’amicizia». Sarebbe facilissimo – anche dopo aver visto la pellicola – trovarsi in disaccordo con questa chiave di lettura, ma basterebbe al tempo stesso soffermarsi su due momenti chiave dell’intera narrazione (il dialogo tra il protagonista e il giovane fratellastro, impersonato da Adriano Giannini, e l’ultima sequenza del film) per accorgersi che in fondo la verità non si allontana di molto da tali intenzioni. Con una partenza strepitosa (macchina fissa che – sui titoli di testa – attende l’avvicinarsi di un fattorino su un tapis-roulant), il lavoro di Sorrentino ci porta, adagiandosi su sonorità elettroniche di forte fascino e contrasto, all’interno di un albergo sito in un freddo e quasi disumanizzato paesino della Svizzera italiana.
Nello stesso, da otto anni, vive regolarmente Titta Di Girolamo (un eccezionale Toni Servillo), distinto meridionale di mezza età, taciturno e solitario. La sua sembra un’attesa infinita, fatta di interminabili soste nella hall (dove per due anni sembra ignorare l’esistenza della bella cameriera, interpretata da Olivia Magnani) e di notti insonni nella camera che, con estrema puntualità, paga ad ogni primo del mese. Chi era quest’uomo otto anni prima? E quale segreto inconfessabile nasconde? Opera di rarefatta bellezza, laconicamente inquietante e sublime nella sua volontà di sottrarre più che mostrare, Le conseguenze dell’amorecostringe lo sguardo a farsi sedurre dai continui depistaggi attuati da un protagonista il quale – utilizzando le parole dello stesso Servillo – «Riesce a strizzare più volte l’occhiolino allo spettatore per poi allontanarsene inesorabilmente». In questo costante gioco di rimandi – imbastito così naturalmente su una sensualità che non dice, ma lascia intendere – il lavoro di Sorrentino sfrutta al meglio le possibilità filmiche che un “non-luogo” come l’albergo può fornire, edificando e continuamente modellando al suo interno la personalità di un povero eroe, giocatore al suo ultimo, definitivo bluff.
di Valerio Sammarco