Chiunque abbia avuto la possibilità d’incontrare Jean-Paul e Luc Dardenne ha compreso come la cifra stilistica espressa dal loro cinema rappresenti perfettamente il modo di essere di entrambi. Restii ad aprirsi verbalmente, i fratelli hanno fatto della sintesi e della essenzialità, qualità che dall’umano vivere si sono trasferite nella tecnica cinematografica. Nella sceneggiatura come nella regia le opere fino ad ora premiate da giurie internazionali (per due volte hanno ricevuto la Palma d’Oro a Cannes) e dalla stampa hanno mostrato una capacità di pulizia espressiva dal quale non è stata certo bandita l’emozione ed il coinvolgimento. Abituati a descrivere le umane miserie di un mondo che vive al margine attraverso uno sguardo puro e privo di qualsiasi giudizio evitando accuratamente le trame di un facile sensazionalismo e sentimentalismo, i fratelli Dardenne nel loro ultimo L’enfant hanno ulteriormente accentuato questa attitudine spogliando il film anche dell’ultimo orpello musicale. Un accompagnamento emotivo per il quale sembrava proprio non esserci più posto vista l’intensità di un film che vive e prospera all’interno di un’armonia creata attraverso pochi dialoghi capaci di ritmare l’andamento di un percorso d’amore. La vicenda di Bruno e Sofia viene ripresa e mostrata attraverso un occhio esterno che, pur mantenendosi emotivamente distante, insegue ogni passo dei personaggi per rintracciare le impronte di una dissolutezza all’interno della quale è possibile rintracciare già la volontà di un nuovo credo. In questo caso la macchina da presa si fa mero strumento, osserva, riprende, fotografa con l’obiettivo l’accadere senza divenire co-protagonista.
La macchina Insegue e pedina svestendosi di qualsiasi presunzione interpretativa, perchè ciò che conta è esclusivamente l’evoluzione naturale ed inevitabile di un bambino che, inaspettatamente, si trasforma in uomo. Un atteggiamento di purezza stilistica che, ancora una volta, è riflesso di una tranquillità morale tipica di due artisti per cui non ha alcuna valenza esprimere giudizi ed imporre opinioni, ma il cui scopo si identifica con la drammaticità e la bellezza naturale di una vita faticosamente in fieri. Nessuno stupore, dunque, rispetto ad una emozione che non sembra farsi largo attraverso una violenta detonazione, ma che si esprime con altrettanta forza attraverso un sordo propagarsi, lento ed inevitabile come solo la quotidianità degli accadimenti può essere. I personaggi tratteggiati dai fratelli Dardenne vivono di quella normalità che non li identifica né come eroi né come dannati. Bruno con la sua immatura leggerezza ci cammina accanto, occupando uno spazio periferico universale capace di tratteggiare un panorama riconoscibile al primo sguardo. Si tratta di una realtà dalla quale siamo circondati ma che evitiamo accuratamente di osservare. Un timore che probabilmente svanisce di fronte al cinema dei Dardenne. Una forza ritrovata grazie ad un sottile gioco di dstanza/ vicinanza che si svolge tra lo schermo (strumento attraverso il quale la vita ci viene mostrata a distanza di sicurezza) e gli accadimenti probabili e possibili proiettati privi di un’enfasi drammatica. Un’assenza che non si fa sentire come incolmabile ma che, probabilmente, aiuta a rendere comprensibile anche la più insopportabile delle realtà.
di Tiziana Morganti