Il pubblico d’oltralpe e non solo, visto che il film di Christophe Barratier ha avuto una nomination per la Francia agli Oscar 2005, ama i film nostalgici, gli sguardi posati su un’epoca passata con l’infanzia e le sue promesse di riscatto messe al centro del plot. Se fosse possibile azzardare un paragone, questo film bello e gradevole sembra miscelare in un forma stilistica da “cinema popolare” tre o quattro pellicole recenti, da Angeli ribelli dell’ irlandese Aisling Walsh a Machuca del cileno Andrés Wood e più forzatamente a La mala educación di Almodóvar. Capostipite resta, senza dubbio, L’attimo fuggente di Peter Weir, che sembra aver dato vita a un vero e proprio genere filmico: il rapporto tra studenti e precettori. Nel 1949, un professore di musica disoccupato, Clément Mathieu, trova un lavoro come sorvegliante in un collegio di campagna, con tanto di preside arrogante ed arrivista ed alunni svogliati ed incattiviti dalla rigidità dell’internato. Il suo fallimento come musicista non lo porta a crogiolarsi in risentimenti o in rancori, anzi lo sgraziato omino si prodiga a dare affetto ai piccoli discepoli, fino a trovarne uno con un vero talento musicale.
Il potere delle note e della musica, splendida (composta e diretta da Bruno Coulais), agisce direttamente sul pubblico, trasportato in un mondo in cui elegia corale ed emozioni personali fanno da contrappunto come in un commovente spartito. La struttura, però, di tutto il lungometraggio ha qualche cosa che non funziona fino in fondo. Forse perché è un debutto nella regia, forse l’entusiasmo del neofita, ma l’eccessivo ammasso di sentimenti contrastanti, i confusi flashback dell’inizio e della fine tolgono quella deriva “gotica” e “maledetta” con cui Barratier racconta le misere vite di giovani “carcerati”, privi di qualsiasi prospettiva futura (come esempio principe, perché non viene spiegata in modo chiaro la complessa relazione di amore/odio che intercorre tra Pierre Morhange, “l’enfant prodige” del coro di Mathieu e sua madre?). A suo vantaggio, quello di non cedere ad un costruito sentimentalismo o ad un patetismo di maniera e se qualche lacrima sgorga è per la soddisfazione di gustare un sano ottimismo di fondo, che di questi tempi, in tanta cinematografia, è latitante. Il motore del film è indubbiamente Gérard Jugnot, bravissimo, già conosciuto in Italia per Monsieur Batignole, del 2002, di cui era anche regista. Il suo personaggio gronda umanità, malinconia, struggimento. Un portatore sano di lieto fine, inimitabile.
di Vincenzo Mazzaccaro