Il presente si stritola su un pianeta terra moribondo e il futuro si cerca in un centro commerciale, una colonia ideale, sperduta nella galassia. In mezzo “L’ignoto spazio profondo” che titola questo requiem firmato dal sempre combattente Werner Herzog e presentato alla scorsa Mostra veneziana nella sezione “Orizzonti”. Requiem senza tempo, solo dedicato a un oggi che va disgregandosi in pioggia dorata e pattume: l’oggi degli umani che il pianeta lo stanno distruggendo e l’oggi degli alieni che Herzog, parabolando, ci racconta arrivati tanto tempo fa sul nostro pianeta per salvarsi e creare e miseramente, pateticamente, scivolati in un fallimento senza ritorno. È l’alieno, allora, col volto indimenticabile di Brad Dourif, a legare questo e quello, l’umano e il disumano, il passato e il presente, il futuro e la catastrofe. A volte facendoci sorridere, a volte tirandoci là dove non vorremmo immaginare, altre volte trascinandoci dentro le visioni di questo strano film che non è certo un documentario eppure del documentario all’ennesima potenza qualitativa ha almeno dei tempi e dei modi e che, dunque, resta un oggetto mutante a seconda della parte del binocolo cui l’occhio si appoggia: grido di rabbia e manifesto d’amore insieme.
«Nessuno ci avrebbe scommesso ma noi a volte sentiamo che ci sono degli azzardi che devono andare oltre la logica e che poi possono non rivelarsi degli azzardi» ha detto il produttore A. Singer, parlando del film che «Noi abbiamo aiutato Herzog a realizzare da un’idea solo sua». Un’idea che, all’inizio doveva tradursi in un film sulla sonda Galileo poi distrutta. In quell’occasione il regista parlò con molte persone e scienziati che avevano reso possibile quel progetto e, all’inizio, l’idea era di girare solo un documentario sulla sonda. Poi il documentario è diventato una fiction, mischiando le immagini dallo spazio della Nasa e le sequenze subacquee create da Herzog. Praticamente “una performance” acrobatica e poetica, ironica e disperata, più efficace di quintalate di immagini documentaristiche, che Fandango ha adesso il coraggio di distribuire nei cinema e che ci dice quasi tutto dello stato del nostro pianeta, scivolando fin sotto la calotta artica e quasi tutto di un regista quasi folle che ha sempre pensato che i sogni possono assumere immagini, incarnarsi sullo schermo, che continua a miscelare stili e generi, umori ed eccessi. Stavolta in un requiem, appunto, dalle cui immagini non ci si libera tanto facilmente.
di Silvia Di Paola