Dopo l’uscita, appena due anni fa, de La damoiselle d’honneur, l’instancabile Chabrol è tornato alla carica con un film fortemente politico ma anche profondamente filosofico. La verve polemica e intelligente è quella di sempre: lo spunto per la storia, infatti, è venuto questa volta al regista dal recente scandalo politico-finanziario conosciuto in Francia come il caso delle tangenti Elf. Attualità politica, quindi, della quale Chabrol si serve per condurre, però, una riflessione più ampia sul potere, sulla sua difficile gestione e sugli effetti, spesso devastanti, che esso ha sulle persone, indipendentemente dai fini verso cui sia indirizzato. Il potere ha, in questo caso, gli occhi gelidi e sensuali di Isabelle Huppert, perfettamente calata nel ruolo di un giudice cinico e determinato, (con il nome disarmante e allusivo di Jeanne Charmant-Killman), le cui ambizioni e l’eccessiva sicurezza di sé finiranno col sopraffare e rovinare la vita privata e coniugale. La messa in scena segue l’andamento lento e inesorabile di un meccanismo perfetto: la macchina da presa riprende dettagli solo apparentemente insignificanti e si sofferma sugli oggetti che costruiscono una vera e propria simbologia del potere, primi fra tutti i guanti rossi della Huppert, che dominano cromaticamente la scena.
Il potere si esercita e si esplicita proprio attraverso la sicurezza degli oggetti e la loro ostentazione o mistificazione, così che nel film tutto assume importanza, persino il diverso taglio di capelli della protagonista nel secondo tempo, che segue e rispecchia emblematicamente le sue evoluzioni. L’ebbrezza del potere, qualunque esso sia, si nutre solo di se stessa, all’interno di un meccanismo distorto e pericoloso che può condurre alla perdita della vera coscienza di sé e rendere vacui concetti già di per sé ambigui come quello di giustizia. È proprio su quest’ultimo che Chabrol appare interrogarsi, mostrando di non apprezzare ogni tipo di divisione manichea del bene e del male e propendendo invece per una visione più complessa e sfaccettata della realtà così come della natura umana, molto incline (inevitabilmente) alle debolezze e agli errori e poco all’espiazione o alla redenzione. Nulla è lasciato al caso: ogni elemento, ogni minima inquadratura risponde alla logica formale di una sapiente regia che gioca continuamente con lo spettatore, disseminando e anticipando indizi senza mai esplicitarli, suggerendoli senza dichiararli. La Huppert si presta magnificamente a questo gioco, del quale è la protagonista assoluta, dando vita a un personaggio controverso e complesso e dimostrando ancora una volta la propria versatilità e intensità di interprete al servizio, soprattutto in questo caso, di un grande autore.
di Valentina Domenici