Lo scrittore e giornalista Goffredo Parise ebbe un infarto nel 1979 e nell’estate successiva scrisse il suo ultimo romanzo, dallo stesso titolo della libera trasposizione cinematografica di Mario Martone. Sono passati quasi venticinque anni. Il dattiloscritto fu avvolto da Parise nella ceralacca, sigillato coi piombini e chiuso in un cassetto, pubblicato solamente nel 1997. Martone, anche se attualizza la trama ai giorni nostri, lascia il senso di tragedia, il tema funebre, la potenza ottusa dell’ossessione carnale in un film duro e bellissimo. Una coppia di intellettuali, una donna di cinquanta anni che ha sempre perdonato le infedeltà maritali, si sfalda di fronte al fascino “osceno” di un giovane scapestrato, che il regista non mostra mai, che entra prepotentemente nella vita di Silvia/Fanny Ardant. Il cineasta napoletano fa proprie le parole di Cesare Garboli, presenti nella prefazione del libro: «L’amore di una donna adulta, senza figli, sedotta da un ragazzo incolto e brutale, appagata dalle imperiose richieste di un membro virile ottuso, immemore, cieco, che si srotola prepotente fuori dai jeans, sempre e subito duro, subito avido, subito eretto, fonte inesauribile di estasi e rapimento, non può durare a lungo, purtroppo». In questo rapporto coniugale in cui non esistono esclusive, Carlo/Michele Placido si crogiola nella certezza che le infedeltà di Silvia siano di natura platonica, convinto che il sesso non sia un ostacolo alla loro ventennale convivenza, ma ecco l’odore della giovinezza, un venticinquenne conosciuto in lontane discoteche, di cui Silvia sa solo ripetere: «È un confusionario, un disadattato. È pieno di cicatrici, si tagliuzza dappertutto, i genitori lo odiano, ma mi passerà…». Ma Silvia non c’è mai, odia le stanze vuote della loro casa romana, il marito scrive il suo libro tra le braccia di una giovane donna amorosa in una casa di campagna, ma un sogno sinistro gli svela la realtà. La luminosità delle immagini di Martone si scontra con le ossessioni di Carlo, che tempesta la moglie di domande su come si snoda il suo percorso passionale, su quali sono le richieste erotiche del ragazzo che non appare mai. «Cosa ti chiede? Dove fate l’amore?», Silvia è costretta a disegnare la forma del membro virile dell’amante quasi si parlasse di un “oggetto” sacro, un pezzo di carne e sangue portato a simbolo “religioso”. Costretta a denudarsi, a dis-velare un desiderio ingestibile, Silvia è sempre più consapevole di essere entrata in un gioco autodistruttivo, fatale. Anche la città, Roma, si fa via via più cupa, sinistra, sgranata, la gelosia di Carlo diventa un pretesto ridicolo per un destino già segnato. Fanny Ardant affronta un ruolo difficilissimo e ne esce viva, il suo accento straniero e, spesso, la teatralità delle situazioni ne fanno ora un Medea post-moderna, ora una donna “moraviana” (l’indifferenza a la carnalità, il linguaggio diretto e apparentemente svagato – sboccato, le pulsioni istintuali di una borghese intellettuale); di contro Michele Placido sembra, spesso, un poliziotto che investiga sui sentimenti che, a giorni alterni, fa lo scrittore. Martone continua pervicacemente per la sua strada, per un cinema che utilizza la letteratura senza paure, fisime, costrizioni e condizionamenti.
di Vincenzo Mazzaccaro