Partito non a razzo negli Usa, L’ultimo samurai di Edward Zwick (co-prodotto da Tom Cruise) è un affresco epico di grande respiro su un’epoca, intorno al 1876, in cui il giovane imperatore Meiji inizia ad introdurre un moderato riformismo nei costumi e nella società nipponica (oltre alle armi da fuoco, sono gli anni delle prime strade ferrate). Un’epoca di trapasso, dunque, che vede schierati e ferocemente contrapposti i fieri paladini del progresso a tutti i costi e gli altrettanto strenui difensori di una tradizione, come quella dei samurai, che per secoli ha dato gloria al Giappone a prezzo della propria vita. Il termine samurai, non a caso, indica ‘colui che serve’. Uomini votati ad un disciplina che non di rado porta all’auto-annientamento contro armi automatiche (dai rudi fucili Winchester decantati da Cruise nella scena iniziale fino ai cannoni della battaglia finale) impugnate da individui senza alcun senso dell’onore. Un tema non nuovo, già magnificamente svolto da Ermanno Olmi ne “Il mestiere delle armi” (2000), che qui il regista correda di un afflato magniloquente (la critica ha, non a caso, citato Braveheart e Balla coi lupi come punti di riferimento più vicini) ma senza scadere nella retorica. Colpisce l’attenzione al dettaglio che sottende tutta la storia, dai lunghi piani-sequenza delle battaglie fino ai gesti, solo apparentemente insignificanti, delle comparse. Anche questo, in fondo, è parte della cultura orientale, che sembra essere stata perfettamente interiorizzata dagli autori (la sceneggiatura è stata scritta da Zwick insieme a John Logan e Marshall Herskovitz) , oltre che dagli interpreti. Cruise, che per il ruolo ha ricevuto una nomination agli Oscar, indossa, forse per la prima volta, lo ‘scalpo’ di un personaggio tanto complesso, e se la cava con la tenacia e il mestiere che lo contraddistinguono. Ma la vera notizia di questa pellicola che ha la veste del blockbuster – costata 140 milioni di dollari e circa due anni di fatiche sui set dislocati tra Giappone, Nuova Zelanda e Los Angeles – è che la sua ‘anima’ è antica: bandita la sovrabbondanza degli effetti speciali, che ormai hanno contaminato l’immaginario filmico universale, il cinema ritrova se stesso.
di Beatrice Nencha