Analizzando attentamente la filmografia di Peter Weir ci si potrebbe chiedere per quale ragione un regista come lui abbia deciso di fare un film come Master and Commander, avventurosa storia di battaglie navali nel Diciannovesimo secolo. In realtà il capitano Jack Aubrey non è diverso da Truman Burbank o dal Max Klein di Fearless, né tantomeno da Allie Fox, l’idealista estremo di Mosquito Coast. Ognuno di loro avrebbe potuto scambiarsi di posto e vivere in uno dei luoghi filmici frequentati dal cineasta australiano, perché ognuno di loro è spinto dalla stessa ansia di conoscenza e conquista, dallo stesso desiderio di superare i propri limiti, una tensione quasi autodistruttiva che li porta però alla perfetta conoscenza di se stessi. Truman distrugge la sua vita perfetta nel momento stesso in cui si rende conto che c’è qualcosa fuori, Max deve scoprire quali sono i limiti della sua immortalità, Allie non riesce ad accettare di stare inseguendo l’impossibile.

Personaggi herzoghiani, tra cui non sfigurerebbero Aguirre e Fitzcarraldo, mossi da desideri più che umani con l’ambizione di avvicinare il divino. Jack Aubrey è il capitano Achab, deciso a sconfiggere l’infernale creatura figlia della modernità, un uomo aggrappato alla tradizione e al dovere a cui si contrappone la ragione del suo amico dottore, personaggio proiettato verso il futuro e il progresso dell’umanità. Il rapporto tra questi due uomini e le loro continue contrapposizioni sono il reale fulcro narrativo di Master and Commander, ponendo in secondo piano tutti gli aspetti avventurosi del racconto, di cui restano invece nitidissime le connotazioni storiche e squisitamente marinaresche, impassibili anche di fronte alla vista di una terra sconosciuta come le isole Galapagos.

Russell Crowe sembra nato per interpretare Jack Aubrey e Paul Bettany è misuratissimo nei panni del dottor Maturin, il resto del cast fa ciò che deve, membri dell’equipaggio in cui ognuno ha i suoi compiti. L’armatore è come sempre regista raffinato e dalla tecnica sopraffina, capace di rendere epica la navigazione così come di non far mancare le atmosfere claustrofobiche che da sempre caratterizzano il suo cinema. Weir è stato capace, in Un anno vissuto pericolosamente, di fare dell’isola di Ceylon il set per un kammerspiel sartriano e allo stesso modo riesce a rendere l’oceano un luogo troppo piccolo per il suo eroe misterioso, dal passato oscuro e deciso ad andare oltre, poco interessato agli affetti, ma bisognoso di una famiglia che lo capisca (come il professor Keating de L’attimo fuggente). Facilmente si potrebbe pensare a una latente omosessualità nei suoi personaggi, in realtà ci troviamo di fronte a un cinema in cui l’unica cosa che conta è il continuo inseguimento di una magnifica ossessione. Sperando di non raggiungerla mai.

di Alessandro De Simone