Avevano pelle candida, bocca rosso fuoco e corpi flessuosi capaci di danzare suggerendo e incarnando sogni, intoccabili. Avevano dita di cristallo che sfioravano strumenti, partorivano armonie rare e avviluppavano. Avevano occhi insinuanti che sapevano fendere più dei coltelli. Erano, almeno per quel Giappone che in esse sintetizzò un universo di sensazioni e di piaceri oltre che una quintessenza della sua tradizione, artiste che danzavano sul mondo fluttuante. Erano geishe ma non avevano un destino perché “Geishe non diventavamo per seguire il nostro destino ma perché non avevamo scelta”. Queste parole risuonano, sintetiche ed esplicite fuori campo nel film Memorie di una geisha (dal 16 dicembre in 150 copie nei nostri cinema) che Rob Marshall ha tirato fuori dalle pagine dell’omonimo romanzo di Arthur Golden che, a sua volta, dopo aver studiato storia giapponese e aver gironzolato a lungo tra Tokio e dintorni, cominciò a scrivere (prima pagine che dovevano essere documentaristiche, poi un racconto in terza persona e infine un diario in prima persona) del mondo delle geishe ormai alle spalle, ispirato da Mineko Iwasaki, geisha a suo tempo e pronta a puntare il dito contro Golden accusandolo, dopo la pubblicazione, di tradimento.
Marshall attinge dalle pagine risultato di quegli umori, vi resta fedelmente ancorato, sceglie una voce off non invasiva e racconta ancora un’altra occidentale versione di un diario che è un pezzo di passato giapponese perché le geishe oggi sono poche decine, non vestono più in kimono e, soprattutto, raccontano altre storie. Marshall, invece, che dopo i sei premi Oscar vinti con Chicago, si è abbandonato anima e corpo in questa opera seconda che Steven Spielberg avrebbe dovuto dirigere (mentre poi, impegnatissimo, ha deciso di fare solo il produttore esecutivo) cercava la storia di una donna che non accetta di rinunciare all’amore, di una bambina venduta e costretta a farsi geisha perché era il modo più dignitoso di sopravvivere, tra gli anni Venti e il dopoguerra, quando con l’arrivo degli americani, le geishe si confusero con le prostitute. Ma, come scrisse Golden, «Ci sono due miti a proposito delle geishe. Uno è che sono prostitute. Ed è falso. L’altro è che non sono delle prostitute. Anche questo è sbagliato». Marshall ha cercato di insinuarsi nel mezzo ma il punto era per lui fare un film con un pubblico di riferimento preciso. E in questo probabilmente è riuscito.
Il Giappone, poi, e una delle sue più misteriose tradizioni è altro discorso: semplicemente Marshall dal mondo a stelle e strisce è arrivato fin lì con tanto di troupe per capire, come dice lui, «I luoghi e gli animi e le tradizioni, da soli e con l’aiuto di esperti»; poi è volato sui set californiani a ricostruire tutto e ha raccontato quello che per lui era «Un viaggio emotivo che le geishe compivano, nel senso che per loro si trattava di arrendersi, senza altra possibilità, ad una vita priva di libertà di scelta, una vita in cui non c’era spazio per l’amore» e questo ha tentato di rendere in immagini, smussando ciò che si poteva, traducendo in melodramma la tragedia se necessario, restando molto al di qua dell’universo mentale giapponese, cominciando già con lo scegliere per protagoniste attrici emblematiche della cinematografia cinese, da Gong Li (cattivissima antagonista) alla giovane Ziyi Zhang (la geisha protagonista), con l’aggiunta di Ken Watanabe (già Premio Oscar). «Ma non è vero che in Giappone il film sia stato mal accolto per questa ragione – precisa il regista – Abbiamo avuto applausi alle anteprime e i critici hanno capito che, anche se il nostro è un film hollywoodiano, l’intento era quello di avvicinarsi alla loro cultura e di omaggiarla. E la scelta degli attori che c’entra? Anthony Queen ha fatto Zorba il greco, l’egiziano Omar Sharif è stato Zivago. Io ho scelto quelli che ritenevo migliori per il ruolo, non certo per la nazionalità». D’altra parte il film è già figlio di una storia guardata dagli occhi di un occidentale. Ed è ciò che dal regista di Chicago ci si poteva e doveva aspettare. Le geishe raccontate dai giapponesi possono attendere. Almeno al cinema.
di Silvia Di Paola