Tra le parole straniere entrate ormai nell’uso comune, ce n’è una che purtroppo si sente sempre più spesso ed ha un’accezione tutt’altro che positiva: “mobbing”. Con tale termine, si intende il maltrattamento psicologico sul posto di lavoro, un’escalation di declassamento, umiliazione ed isolamento che la persona può subire dal capo o addirittura dai colleghi. A volte possono essere semplici frasi di minaccia, altre sono gesti concreti e crudeli: senza un valido motivo, la propria mansione scende di livello, si è costretti all’inattività e si diventa il bersaglio (e lo zimbello) di tutti, con battute pesanti o persino con l’indifferenza. Francesca Comencini affronta questo problema nella sua ultima pellicola Mi piace lavorare, vincitrice al Festival di Berlino nelle sezione “Panorama”, un film che si avvicina molto di più al documentario (come era già avvenuto nel precedente Carlo Giuliani, Ragazzo) e di cui firma regia e sceneggiatura. Nel cast, veri lavoratori ed esponenti della CGIL, accanto ad una bravissima Nicoletta Braschi – svincolata dall’ala protettiva del marito Roberto Benigni – nel ruolo di Anna, la protagonista, e a Camille Dugay Comencini, la figlia di Francesca. Ciò che viene fuori, è un affresco delicato, poetico ed estremamente realistico, che commuove e ben descrive il disagio di chi lavora con impegno e passione, per ritrovarsi poi, all’improvviso, vittima di questa dedizione/serietà professionale. La regista ha portato sullo schermo il calvario di Anna senza mai calcare la mano, con una leggiadria che colpisce perché sa comunque lasciare un segno e scavare a fondo, badando alla minuzia del particolare e senza “urlare”. I personaggi si muovono con estrema naturalezza, seguiti passo passo da una telecamera discreta ma incisiva, che coglie sfumature del volto, colori e stati d’animo. Tenero e molto tangibile il rapporto tra madre e figlia, tra Anna e Morgana: un piccolo nucleo familiare che non si spezza nonostante le difficoltà e, anzi, diventa un punto fermo in una girandola di eventi negativi e destabilizzanti. Anna è una donna semplice e leale, impiegata in un ufficio per cui spende gran parte della sua esistenza e del suo tempo. A causa di alcuni cambiamenti aziendali, le viene tolta la consueta postazione nella stanza e al computer; in mensa è lasciata da sola ed in pochi le rivolgono un saluto. Non sono che le prime avvisaglie di un voltafaccia ingiustificato: i superiori la sposteranno prima in ozio davanti alla macchina fotocopiatrice, poi in un reparto gestito da uomini che la vedono come un nemico, affatto disposti a venirle incontro. Giorno dopo giorno, il clima si fa tesissimo e l’amarezza di Anna aumenta, fino a sfociare in depressione e malesseri fisici. Riuscirà a rialzarsi solo grazie alla sua forza, all’affetto di Morgana e ad un’amica consulente che si batte contro ogni fenomeno di “mobbing”. Ma, nella realtà, quante persone riescono veramente a reagire? Il messaggio che la Comencini lancia è questo: mai credere che sia colpa nostra e mai cedere alle violenze, più o meno sottili, che gli altri ci impongono. Bisogna capire che non si deve tacere, bensì camminare a testa alta ed avere il coraggio di ribellarsi. Senza assumere toni didascalici e senza intravedere per forza risvolti politici, il film racconta una storia che può capitare ad ognuno di noi, con le stesse modalità. Perché Anna, in fondo, è una di noi, con le nostre fragilità, le nostre insicurezze ed i nostri ritmi quotidiani. Complimenti, quindi, ad una pellicola onesta, essenziale, senza fronzoli e che va dritta al cuore della questione, toccando il lato umano. I tentativi di autenticità e di denuncia sociale vanno sempre incoraggiati, soprattutto all’interno di un cinema italiano che vuole (e deve) crescere.
di Francesca Palmieri