Quando Frankie Dunn (Clint Eastwood) incontra Maggie (Hilary Swank) è un allenatore e manager di grandi pugili ma è ormai sul viale del tramonto. Vive più della gloria e del rispetto che si è saputo guadagnare sul campo, insegnando ai suoi boxer che la regola numero uno è proteggere se stessi ad ogni costo, che dell’attesa di nuove sfide e traguardi da raggiungere. Nella sua palestra – dove lavora il suo amico ed ex pugile Scrap (Morgan Freeman) e dove si allenano giovani più o meno promettenti – entra una ragazza con un sogno difficile da estirpare: diventare un pugile professionista. Inizialmente ostile all’idea di prepararla ad affrontare il ring, l’uomo si lascia convincere, e coinvolgere emotivamente, quando ne mette alla prova l’impegno, lo spirito di sacrificio, la determinazione che non arretra di fronte a nessun ostacolo o divieto. Sfida dopo sfida, Maggie mette al tappeto ogni rivale e dimostra a tutti, in primis a se stessa, che nessun sogno è troppo ardito per essere irrealizzabile. Ancora di più se ad inseguire l’american dream è un’esponente di quel cosiddetto “white trash”, il sottoproletariato urbano che abita nelle roulotte di periferia e mangia gli avanzi che gli altri scartano. Così Maggie, indossati i guantoni, si butta alle spalle il passato per diventare il simbolo di un’alternativa possibile, dato che la boxe, come sintetizza all’inizio Frankie, è una questione di rispetto prima ancora che di rapporti di forza.
Ma sul ring, come nella vita, si può giocare sporco o pulito, ed è questo che fa la differenza. Per questo quando Maggie finisce al tappeto, in quella che sarà la sua ultima sfida, insieme a lei non cade la consapevolezza di aver conquistato l’Olimpo, anche se solo per un istante… Vincitore di due premi agli ultimi Golden Globes, Miglior regia e Miglior interpretazione femminile nella categoria film drammatico – con la Swank grande favorita nella corsa all’Oscar (sarebbe il secondo, anche se lei si schernisce) – e accompagnato dalle immancabili polemiche dovute ad un finale letto in chiave pro eutanasia, Million Dollar Baby di Clint Eastwood (in uscita il 18 febbraio) è prima di tutto una commovente storia d’amore. Classica nell’impianto, come tutti i film diretti dall’attore dagli occhi di ghiaccio, senza cedimenti al patetico e concessioni alla retorica (anche filmica) di alcun tipo. Al contrario, è una pellicola che non fa sconti a nessuno, tanto meno agli spettatori che attendono un epilogo buonista, e da cui si possono trarre insieme speranza e disillusione. Consapevoli che il sogno americano rimane, ancora una volta, una grande e dolorosa utopia. Per cui ognuno di noi sa se valga la pena vivere, o morire.
di Beatrice Nencha