La nostalgia per una politica che faceva parte della coscienza collettiva, per i sentimenti espressi con la fisicità dei gesti, delle parole forti, quelle che ti sgorgano dentro quando sei carico di rabbia e di aspettative frustrate. Sono le molle che hanno spinto Daniele Luchetti a raccontare uno spaccato umano e politico di fine anni ’60 nel film Mio fratello è figlio unico, prodotto da Cattleya con Warner che lo distribuirà dal 20 aprile in 500 sale. Prendendo spunto, ma anche le debite distanze, dal libro di Antonio Pennacchi Il fasciocomunista, Luchetti ha scritto un’ottima sceneggiatura con Stefano Rulli e Sandro Petraglia affidandola a bravissimi attori come Elio Germano, Riccardo Scamarcio, Luca Zingaretti, Angela Finocchiaro, Massimo Popolizio, Anna Bonaiuto che con estrema naturalezza ti fanno entrare nella storia, ti scatenano emozioni forti, ti fanno ridere, identificare coi protagonisti. Due fratelli diversi, ma non troppo: lo scontroso e ribelle Accio (Germano) che vive ogni battaglia come una guerra e mollato il seminario si converte al fascismo, e il maggiore, Manrico (Scamarcio), bello e amatissimo operaio impegnato a sinistra. Una famiglia operaia della “nera” provincia pontina, con pochi soldi e pochissimi sogni, una vita “crepata” come la casa fatiscente in cui vivono nell’estenuante e vana attesa di un alloggio popolare. Una bella e profonda commedia popolare, un racconto di formazione in cui sfilano quindici anni di storia d’Italia attraverso le vicende dei due ragazzi impegnati su fronti politici opposti, innamorati della stessa donna, coinvolti in un confronto-scontro senza fine, specchio di un paese spaccato che, allora come oggi, non riesce a conciliarsi. “Provo nostalgia e invidia per quegli anni, anche se sono nato solo nel ’60 – spiega Luchetti -, li racconto con ironia, amore, desiderio, da allora sembra siano passate venti generazioni. Questo film è la mia voce, doveva somigliare a me, ci tenevo, ci ho messo divertimento e emozione, non c’è una ricetta, come dicono le signore che fanno i biscotti a occhio”. Divertimento e emozioni sono assicurate, grazie alla magica amalgama che il regista ha saputo creare impastando la spontanea bravura degli interpreti, lasciandoli liberi di esprimersi senza troppe prove prima dei ciak.
Liberi di dare sempre il loro meglio, di scalciare come fa Accio ragazzino quando rifiuta i preti e si ribella ai suoi (eccezionale prova del tredicenne Vittorio Emanuele Propizio), si converte al fascio, fa a cazzotti col fratello di sinistra, coi nemici di partito, con l’ex “padrino” fascista (Zingaretti) cui soffia la moglie rinnegandone pure la fede politica. Luchetti si è staccato dal titolo del libro perché, spiega, “un po’ fuori fuoco rispetto al film”, ma ne ha catturato il tono scanzonato, l’energia dei personaggi, la loro voglia di misurarsi con la realtà , cambiandone comunque il finale. “Accio alla fine riparte dalle cose pratiche, ritrova se stesso, ha una spinta in avanti, prova sollievo”. Il titolo del film è preso da un brano di Rino Gaetano volutamente non inserito nella colonna sonora perché, spiega Luchetti, sarebbe stato “troppo invadente” nella storia. Elio Germano, che qui si conferma validissimo attore, si è ampiamente documentato su quegli anni attraverso video, canzoni, racconti di chi li ha vissuti. “Ma ho voluto leggerli con gli occhi dei nostri giorni – puntualizza -. Quell’energia mi ha molto colpito, si era più fedeli a ciò che si provava, ci si guardava di meno, ora siamo tutti più narcisisti. All’inizio avevo difficoltà ad avvicinarmi al personaggio senza giudicarlo, semplicemente ascoltandolo, mi ci appiattivo. Poi finalmente gli ho dato una tridimensionalità, l’ho reso tenero, in cerca d’affetto. Accio vuole anche mettersi in mostra nei confronti del fratello, cerca di esserci, di farsi notare, mi piace perché ragiona con la sua testa. La cosa più bella di questo film è stata ritrovare la forza delle mani, nel Duemila un vero piacere”. “Io invece non mi sono documentato – gli fa eco Scamarcio -, il motore era il sentimento che provo verso il mio vero fratello, le dinamiche del film sono legate molto ai sentimenti, semplici, ma che ti appartengono profondamente, che fanno parte della nostra cultura”. “Questo film mi ha molto commosso, non riesco a descriverlo – dice Zingaretti, nel film incrollabile fascista -, ho cercato di capire la struttura psicologica del mio personaggio, di esprimere le segrete motivazioni che lo muovono, senza darne un giudizio etico. Per recitarlo bene un personaggio deve avere una sua dignità, allora diventa tutto semplice”. Luchetti ha voluto che gli attori vivessero le scene come se fossero vere: “Come fosse un documentario – aggiunge -, erano completamente liberi di fare ciò che in fondo io volevo facessero”.
di Betty Giuliani