Un film da recuperare, attualmente in sala
Il giorno del suo undicesimo compleanno l’eterea e apparentemente serena Angeliki si getta sorridendo dal balcone, mentre in famiglia si balla, si ride, si scherza. Miss Violence, opera seconda del greco Alexandros Avranas (dal 31 ottobre in una cinquantina di sale con Eyemoon Pictures), comincia assestando un bel pugno nello stomaco dello spettatore. Poi però la storia si dipana in un clima di insospettabile normalità, svelando piano piano cosa si nasconde dietro l’apparentemente inspiegabile gesto della ragazzina.
Meritatissimo Leone d’Argento a Venezia per la miglior regia a Avranas, autore anche dell’ impeccabile sceneggiatura (Coppa Volpi per il miglior attore al protagonista Themis Panou, l’inquietante nonno, padre-padrone della disastrata famiglia), che ha saputo raccontare anche la realtà più dura e irraccontabile con estrema delicatezza, senza retorica e senza sconti, senza inutili levate di scudi o pietismo, mai sopra le righe, obbligando lo spettatore a registrare nel profondo del proprio animo lo sconcerto provocato da una realtà sempre più spesso in primo piano nelle cronache nere.
Fatti di inenarrabile violenza che suscitano orrore e sgomento e che, per difesa, vengono prontamente rimossi dalle nostre menti, con l’alibi che appartengono a mondi loschi, lontani anni luce dalla vita della cosiddetta gente perbene. Famiglie normali, come quella descritta da Avranas, col nonno che porta a scuola i nipotini, fa la spesa, li aiuta nei compiti, la nonna che prepara le torte, la giovane mamma che li ricopre di affetto. Un quadretto quotidiano che comunque inquieta, che senti subito celi inconfessabili segreti dietro la rigida disciplina imposta dal nonno ai nipotini, i loro inspiegabili silenzi in cui si spengono anche le più comuni emozioni.
Un film assolutamente da non perdere, per chi si vuole riconciliare con un’arte fin troppo spesso bistrattata, ormai praticamente defunta nel cinema di casa nostra ma che, fortunatamente, grazie a cineasti dello spessore di Avranas, riesce ancora a sorprendere e emozionare.
«Per preparare questo film era necessario creare tra gli attori, adulti e bambini, l’intimità di una vera famiglia – spiega l’autore presentando il film a Roma -, per questo abbiamo fatto le prove direttamente nell’appartamento dove avremmo girato. Perché si creasse tra loro naturalezza e confidenza avevo messo anche i turni in cucina, perché tutti avessero l’esatta percezione dei loro spazi».
«In Grecia, in genere, mi affidano parti comiche, non mi ero mai dovuto misurare con un personaggio così – racconta Panau -. Ho passato molti mesi con il regista a studiare la sceneggiatura per comprendere fino in fondo cosa voleva esattamente da me, dove dovevo essere a livello psicologico. Poi ho capito che se non avessi riconosciuto la violenza che esiste dentro di me, come c’è in ognuno di noi, non avrei mai potuto interpretare quest’uomo. Tra il pensare un atto violento e compierlo effettivamente c’è una distanza espressiva – conclude l’attore -. È quello spazio in cui finiamo tutti, fermandoci più o meno vicini al far esplodere la violenza a seconda del nostro carattere e della nostra educazione. Per questo ruolo ho dovuto esplorare a fondo tutti i livelli di questa distanza».
Ruolo complesso anche quello della figlia maggiore di questo padre-padrone. «All’inizio non capivo il mio personaggio, lo odiavo e lo disprezzavo per la sua incapacità di reagire alla situazione, ma era una mia forma di egoismo – spiega Eleni Roussinou -. Ho pensato a quante volte mi è capitato fronteggiando piccole sgradevolezze di far finta di niente, magari solo per quieto vivere, o per non imbarcarmi in scontri estenuanti. Mi sono resa conto che i traumi di Eleni erano tanto gravi da averle distrutto la personalità». Una situazione che il regista definisce ‘Sindrome di Stoccolma’.
«In questa famiglia sono tutti succubi di questo individuo, dalla moglie, alle figlie, ai nipotini – spiega Avranas -. Lui tiene tutti in scacco coltivando le divisioni tra loro, in modo da essere il referente unico, quello che premia o punisce, a seconda del suo capriccio. La storia è ispirata a una vicenda accaduta in Germania nel 2010. Lì il padre è finito in carcere, ma la madre non ha mai voluto testimoniare contro di lui».