A cavallo tra amplessi reiterati ma fantasiosamente declinati e parole in libertà, adulteri sbattuti su uno specchio e rivendicazioni artistiche, la domanda che si pone è: meglio discettare su “culi allo specchio” e giochi di coppia o polemizzare col direttore della Mostra del Cinema, Marco Muller? E perché non fare entrambe le cose se l’una aiuta l’altra? Così, stavolta, Tinto Brass per promuovere il suo ultimo film, Monamour dal 9 settembre nelle sale, non organizza la sfilata in gondola di fronte al Lido veneziano ma attacca a spron battuto Muller che avrebbe «Prima visto il mio film e detto che intendeva portarmi alla Mostra per sdoganarmi e, poi, per mancanza di coraggio, da cacasotto e finto laico, fatto appello al Regolamento che esclude film come i miei», e i suoi consiglieri, «Progressisti a parole che, alla prova dei fatti, si rivelano sempre più reazionari dei conservatori dichiarati, cani da guardia, cerberi e secondini del Potere più consolidato, capaci solo di organizzare una mostra che è una vetrinetta di opere “politically correct”, escludendo tutte le opere non riducibili in una cornice tranquillizzante, catartica, castrante e lassativa». Così parlò Brass che ormai veleggia, ansante e gioioso, dentro un mare da lui disegnato in cui tutti lo riconoscono come “maestro” e in cui il maestro si sente solo contro tutti, paladino di un erotismo liberato e voluttuosamente sincero, unica declinazione possibile di una libertà che attorno si va stemperando “nel vento di ordine e disciplina che ha ripreso a soffiare da dritta e da manca” e certo di stringere tra la mani la “Verità”. Quella che gli permette di dire ad una conferenza stampa che «È scemo chi non apprezza i miei film», di sputare sulla Mostra del Cinema che «Dovrebbe invitarmi e premiarmi» e di regalarci pillole della sua saggezza e perle come quella con cui ha esordito: «Attenti ragazzi perché la verità è magnanima e tollerante ma ha le chiappe taglienti. Se si incazza a essere perennemente inculata le serra come ganasce di tronchese e addio uccello».
Allora se amate il genere (che i suoi estimatori li ha senz’altro, testimoniati nei passaggi televisivi e nell’homevideo) accomodatevi. Monamour, storia adulterina di un francese e di una veneziana trascurata dal marito che, però, scoperta la tresca e attraverso la tresca, si riaccende d’amore e voglie nei suoi confronti, non vi deluderà. Perché ben sintetizza il Brass dell’ultimo decennio, ossessivamente (ma lui dice “gioiosamente”) focalizzato su erotismo pronta consegna e su un consumismo sessuale che traduce la donna nel suo sedere e l’uomo nel suo pene. Con tante varianti, certo, perché un lungometraggio bisogna pur riempirlo di qualcosa ma, soprattutto, con molta reiterazione, tra specchi e stoffe, musiche altisonanti e straniere scovate via web (che ormai ha folgorato Brass prossimo all’inaugurazione di un proprio sito “in cui poter parlare, dato che in tv non ho spazio”) e con una sola novità (che non aiuta), l’uso del digitale («Che mi ha permesso di girare tutto ciò che volevo, di montare liberamente e che in futuro, almeno per le riprese in interno, utilizzerò sempre»). E la sua corte applaude. «Non posso dire che lavorando con Brass si è avverato un mio sogno: è stato molto più di un sogno. Lavorare col maestro mi ha fatto scoprire la mia femminilità e mi ha reso più matura come donna. Mi si è aperto il petto e ho imparato a non nascondere ciò che spesso le donne per pudore non dicono e non fanno» ripete appassionata la protagonista venuta dell’Est, Anna Jimskaya. E le fa eco la sua collega Nela Lucic: «Sul set è stato bellissimo: una scuola di libertà. Lo consiglio a tutte le attrici». Calca la mano l’ex carpentiere Riccardo Marino: «È stato un vero gioco. Anzi, come giocare al dottore, divertentissimo». E sintetizza per tutti Max Parodi, già veterano dei film di Brass: «Tinto è un Platini della macchina da presa e il film è molto erotico e molto simpatico: piacerà alle persone intelligenti». E di commento non c’è proprio bisogno.
di Silvia Di Paola