Aileen (Charlize Theron) è la personificazione dell’ “American dream”, infranto. Sin da piccolissima, boccoli biondi e occhioni azzurri sgranati, sogna di diventare una novella Marilyn Monroe. Ma la realtà, nella proletaria e degradata provincia del Michigan dov’è nata, da genitori giovanissimi e inaffidabili, la costringe a ben altro destino. A sei anni, dopo un incidente, rimane ustionata al volto e a 14 è incinta e abbandona il bambino in un istituto di Detroit. Poco dopo, per via del carattere ribelle e dovendo mantenere i fratelli, lascia la scuola e inizia a prostituirsi sul ciglio della “highway”. Proprio in un’area di ristoro avviene l’incontro fatale, quello che cambierà per sempre la sua vita. Tra una birra e l’altra, i suoi occhi incrociano quelli, nerissimi e profondi, della ventiseienne Selby (Christina Ricci), con cui comincia una travagliata storia d’amore e un viaggio all’interno del Paese tra sordidi motel, pub e bische clandestine. L’altro avvenimento che sconvolge la ritrovata, seppur labile, tranquillità di Aileen sarà l’incontro con un cliente che, dopo averla sodomizzata, tenterà di ammazzarla. Viene invece ucciso dalla giovane che, da quel momento, darà il via ad una lunga catena di omicidi a scopo “vendicativo”, in un crescendo di orrore gratuito che finirà per travolgere anche la sua compagna. “Monster”- che ha (meritatamente) regalato un premio Oscar e un golden Globe all’ex top model sudafricana Charlize Theron – è un film che non fa sconti a nessuno. Sin dal principio si capisce che il Sogno, il grande sogno americano, è marcio. E la Theron, con i suoi 15 chili in più, i denti finti e il viso imbolsito e piegato in un ghigno, non fa che testimoniarlo nei segni impressi sul suo corpo, nella cellulite che s’intravede impietosamente allo specchio. Un fisico in disfacimento precoce, metafora di una società altrettanto corrotta e putrefatta. Non per niente, nella scena della presa di coscienza davanti al medesimo specchio, Aileen richiama alla mente un’altra vittima-vendicatore, frutto predestinato della cattiva coscienza americana, ovvero il Travis-De Niro di “Taxi Driver”. E il pregio maggiore della pellicola, scritta e diretta dall’esordiente Patty Jenkins, è l’aver saputo raccontare la storia di quella che è stata la prima serial-killer donna, Aileen Wuornos (morta in un carcere della Florida, nel 2002, mediante iniezione letale), in un film che ha i ritmi, le “sporcature”, la sospensione del giudizio tipici del cinema indipendente americano anni ’70. Un cinema di antieroi che hanno imparato presto, e a loro spese, a smettere di sognare. Perché hanno capito che quando la grande ruota della vita gira, per loro è solo l’ennesimo mostro da affrontare.
di Beatrice Nencha