L’America sognata da Wenders, quella dei grandi scrittori (Capote, Fante e Chandler) non esiste più: il grande Paese che aveva affascinato uno dei maggiori talenti del cinema tedesco, venuto su con le pellicole di Nicolas Ray, il primo amore (al cineasta di Neve Rossa ha dedicato anche uno struggente documentario) e le vallate di John Ford, ormai è in declino; al suo posto sorge una Nazione ferita, distratta dall’indifferenza e dall’imbecillità dei soliti noti che hanno finito per scambiare il deserto di Moab per le mitiche Monument Valley credendo di partecipare ad un concorso turistico stile Marlboro Country. Howard Spencer, cavaliere solitario nonché protagonista del nuovo Non bussare alla mia porta, è un po’ il simbolo di questa società: svagato, assente, coinvolto in ogni sorta di scandalo da prima pagina, abbandona il set di un mediocre western culminate in una patetica scena d’amore, per attraversare gli stati del West e riscoprire le proprie radici di marito, padre, uomo. Sulle note country di T-Bone Burnett, si agita l’ultima opera di un autore controverso, capace nei primi anni di lavorazione di regalarci indiscussi gioielli, su tutti Alice nelle Città e Lo Stato delle cose e poi di rigirare su stesso e sulle proprie indubbie e meritevoli qualità prima di fotografo e poi di cineasta. The Million Dollar Hotelatto d’amore nei confronti del rock e poetica love story con tinte fantascientifiche (come l’incompiuto Fino alla fine del mondo) rappresenta a tutt’oggi una delle migliori, sebbene irrisolte, pagine di visione sospesa tra il melodramma e il giallo surreale: al contempo anche questo ultimo lavoro ha tutto l’aspetto di un ibrido.
Le immagini incantano, le prove degli interpreti (fra i quali spicca un maturo e perfetto Sam Shepard) convincono di gran lunga, ma la sceneggiatura, soggetta ad aggiornamenti per ben dieci anni, risulta a tratti pesante e priva di guizzi. Tutta la parte ambientata a Butte (scenografia principale anche nel primo romanzo di Dashiell Hammett) è assolutamente ipnotica: la macchina da presa è collocata in punti e trova angolazioni che ricordano squarci di un immaginario realista, “povero e muto” tanto da far pensare alle tele Early Sunday Morninge House at Dusk di Edward Hopper. A tal proposito potrebbe essere interessante proporre una battuta di Wenders per la prima volta ospite di quella “strana” location: grandi palazzi, strade larghissime ma tutto come abbandonato: la stessa dolce malinconia che si respira gettando lo sguardo sulla pittura del maestro newyorchese. Il film vorrebbe essere una rilettura a tratti ironica e distesa (giganteggia il quasi futuristico cacciatore di taglie amante dei biscotti fatti in casa Tim Roth) al contempo intrisa di sottile tristezza di Paris, Texas anche se qui emergono aspetti (le occasioni perdute e il passare del tempo) che purtroppo la sottraggono dall’impianto drammaturgico di quel capolavoro e rendendo vane le aspettative del cowboy senza stella. Da sottolineare nella scelta del cast le fortunate intuizioni per i ruoli della madre di Howard (sullo schermo una grintosa Eva Marie Saint) e soprattutto delle giovani leve Sarah Polley (così brava non la si vedeva da Il dolce domani di Atom Egoyan) e Gabriel Mann nei panni del figlio musicista e ribelle perduto e forse ritrovato.
di Ilario Pieri