Un libro violento e di impressionante visionarietà, dove ad ogni singola parola corrispondeva una misteriosa immagine, era assolutamente appetibile per una trasposizione cinematografica. La scrittrice è Margaret Mazzantini, il marito, l’attore italiano più bravo degli ultimi tempi, Sergio Castellitto. Cinque anni di limature, di rinnovati script per evitare che si sentisse troppo la matrice letteraria, l’io narrante di questo livido e sincero monologo, la paura di girare se stesso in ruolo scomodo, quasi aberrante, la scelta degli altri attori, la moglie che accetta un blando ruolo da consulente affettuosa. Il risultato finale è importante, prezioso, struggente: Penélope Cruz nel ruolo di Italia, l’archetipo di una donna madre, di una lupa seviziata, con la sua ignoranza, l’odore di miseria e di scontento che le esce dai pori, fa venire i brividi. Imbruttita, stracciona, impresentabile è l’unico amore di un chirurgo, Timoteo, che vuole ucciderla con lo stupro iniziale, per non riaprire la sua infanzia dolorosa, anch’essa piena di afrori scadenti, di brutture, di violenze familiari. Un uomo borghese che non ha mai amato nessuno, che ha vissuto nei disperanti quadretti di una soffocante rispettabilità, divenendo estraneo a se stesso. Questa donna senza età è trattata come una prostituta da un ricco fallito, che ha perso il contatto con la propria complessità esistenziale, che deve abituarsi all’Amore assoluto, sciolto da vincoli di apparenza e di decoro. Italia è la madre, la placenta, l’ossessione, la paura, il bisogno; questa donna dal nome ridicolo che canticchia Toto Cutugno ha il cuore mansueto di chi ha conosciuto l’odio dei maschi, la viltà di mani febbrili sul proprio corpo, le molestie di un padre “assassino”. Timoteo cerca di annullarla ogni volta che la vede nella sua casa tugurio, le ride addosso, ma l’oscenità di un uomo infelice non la umilia, la commuove. Il ricordo di questo unico e lontanissimo amore, finito in modo tragico, ha il potere di dargli la forza per rimanere vicino alla figlia quindicenne, mezza morta per un incidente con il motorino, di riappacificarsi con una moglie frivola e consapevole di vivere in paletti strettissimi. Timoteo, al fine, accetta la sua oscena mediocrità, sperando di non dover pagar dazio a un dio forse inesistente. Se il Castellitto regista ha evidenti limiti stilistici e ogni tanto è pleonasticamente oleografico e mette troppa carne al fuoco (il film ha quindici minuti di troppo), come attore sconvolge per l’esattezza “lombrosiana” di una tipologia maschile più comune di quanto si voglia pensare. Claudia Gerini è bravissima nel ruolo della moglie benestante che sa cogliere le frustrazioni maritali senza darle eccessivo peso (drammatica e spassosissima la sequenza in cui Timoteo si confida con torva sincerità con una colf della finestra di fronte, mentre Elsa, sorda (o forse no?) continua a preparare le valigie per un suo viaggio di lavoro). Penélope Cruz, infine, si annulla nel suo personaggio in modo mirabile, finanche eccessivo e ci si scorda del suo scintillio hollywoodiano. Sembra al suo primo film, nemmeno dovesse rimanere l’ultimo, anche la sua bravura con Almodovar si scolora. Qui è un’altra cosa.
di Vincenzo Mazzaccaro