Nelle prime scene di Oceano di fuoco – Hidalgo, ci sembrerà di essere tornati in sala per L’ultimo samurai. Un Americano con crisi di coscienza per lo sterminio dei pellerossa va in Oriente alla ricerca di un equilibrio vitale, e fin qui ci siamo. Sia Cruise che Mortensen si guadagnano da vivere in un circo equestre che riproduce le sanguinarie e gonfiate gesta dell’esercito americano contro i pellerossa. Insommma, per arrivare a vedere un altro film bisogna attendere una quindicina di minuti e più, quando il protagonista viene raggiunto nel suo “Wild West Show” da un messo che lo recluta per la corsa più folle del mondo: 3000 miglia nel deserto d’Arabia in una vera e propria lotta per la sopravvivenza, ma che occorrerà al protagonista per riguadagnare l’onore perduto e la non trascurabile cifra di 10.000 dollari. Non difficile intuire l’intento del regista Joe Johnston, forgiato alla fucina degli effetti visivi della “Industrial Light & Magic”, di stupire l’occhio dello spettatore con immagini piene, dense ed elaborate. Non sognandoci nemmeno di porre un parallelo con lo spassoso film di Blake Edwards del ’65, notiamo la presenza di tutti gli stereotipi da Grande corsa: rivalità, tranelli, imprevisti di percorso, eroi e damigelle da salvare. L’elemento che diversifica e (purtroppo) attualizza il film è la sua ambientazione mediorientale: Omar Sharif è uno sceicco affascinato dall’America del Far West e incredibilmente avulso al perdono quando Hopkins viene sorpreso in tenda con sua figlia, priva del suo velo; figlia che per altro si chiama Jazira (che fantasia).
Fa riflettere l’incomunicabilità postulata durante le prime incomprensioni tra Hopkins e Riyadh (Sharif) e colpisce l’affermazione di quest’ultimo: «come posso credere ad un miscredente?». Tale affermazione gettata lì così, ha in realtà un senso molto più grave se amplificata sugli eventi dei giorni nostri, porta il senso di una incomunicabilità di fondo tra due culture e due fedi, quella islamica e quella occidentale che cercano invano di incontrarsi correndo su due binari opposti. La realtà è però molto più dura di un film: se Riyad si impietosisce davanti ad un racconto sulla figura di Wyatt Earp, e resta affascinato dinanzi ad una colt impugnata da un vero cowboy, sappiamo benissimo che molti degli islamici con cui abbiamo a che fare oggi vorrebbero la colt solo per far fuori tutti i Wyapp Earp sparsi nel mondo. Per nostra fortuna il caro Mortensen non porta bandiera a stelle e strisce, anche lui si mostra invece a suo modo ‘extracomunitario’, diverso, mezzosangue: la sua bandiera è quella dei pellerossa. Difficile non illudersi e non fantasticare sulle intenzioni propagandistiche di un film che apparentemente non ne vuole avere; diciamo che Hidalgo, per il suo buonismo, ambientalismo e animalismo, è paradossalmente provocatorio: quasi che una schiera di intellettuali riformisti, ci voglia segnalare la necessità alla Casa Bianca di una figura come Condoleezza Rice per riaprire uno spiraglio di dialogo in alternativa alla guerra…ma forse voliamo troppo con la fantasia.
di Alessio Sperati