O-po-po-moz!! Ecco l’innocuo ed innocente sortilegio con il quale Enzo D’Alò tenta di inserirsi nel panorama dei lungometraggi d’animazione natalizi, terreno di indiscusso dominio di sua signoria Disney. Riprendendo il tratto morbido ed i colori mediterranei tipici del suo stile, l’autore di Momo alla conquista del tempo (2001) costruisce un ritratto topografico ed umano di una Napoli illuminata da realistiche luci di festa ed improbabili nevicate, che osserva ed assiste alla crescita di Ciro attraverso la presa di coscienza delle proprie responsabilità. Incantesimi e tentazioni che, all’ombra del Vesuvio, si uniscono e confondono con la tradizione partenopea del presepe e la saggezza popolare, caratterizzando una vicenda dalla semplice struttura narrativa e dall’ambientazione e dall’atmosfera tipicamente italiana. Ed è proprio in questa identificazione così fortemente riconoscibile che si colloca la forza e la debolezza dell’intero film. Perché se da una parte è opportuno e vantaggioso narrare elementi noti per risultare credibili e d’impatto, dall’altro questo tende ad escludere una porzione di pubblico che non solo non si riconosce in essi, ma ne ignora totalmente la provenienza. Un errore di costruzione narrativa nel quale D’Alò non cadde durante la realizzazione di La gabbianella e il gatto (1998), scegliendo di dare corpo alla favola “universale” di Sepulveda grazie alla quale vinse un Nastro d’Argento ed il premio del pubbblico al Festival di Montreal. Nonostante l’attenta ricostruzione dei particolari urbani ed il tentativo di affidare alla storia un messaggio morale ed etico, l’attenzione dell’intera squadra di realizzazione sembra essersi troppo soffermata sulla riproduzione del particolare, perdendo di vista l’insieme. Ed è così che il risultato finale propone una vicenda dal ritmo alterno e dispersivo, che con grande difficoltà riesce a mantenere viva l’attenzione e l’interesse proprio nei momenti di maggiore intensità e che male amalgama le immagini alla traccia musicale realizzata da Pino Daniele e dai Neri per caso. Un panorama emozionale che, se ben proposto e presentato, non trova la giusta realizzazione ed espansione, terminando in un confusa e frettolosa evoluzione dal lieto fine. Un risultato scarso se si riflette sui quattro anni di lavoro occorsi per realizzare il film, sulla presenza vocale di John Turturro e sui precedenti di qualità e di successo di D’Alò. Nonostante possa apparire quasi assurdo il confronto con l’universo perfettamente orchestrato e miscelato tra animazione, musicalità e sfaccettature interiori di Nemo, il delimitato perimetro fantastico di Opopomoz non riesce ad imporsi non tanto come “rivale” od “antagonista”, quanto come altrenativa valida. Inutile aggrapparsi alla storia del tipico stile italiano che vibra di onestà e genuinità, pur di sostenere un prodotto palesemente limitatato nella sua capacità di diffusione e d’espressione. Nonostante il piacere artistico del tratto tondo ed avvolgente dei disegni di D’Alò rimane la delusione per aver assistito ad una “fantasia” chiaramente diretta verso un pubblico esclusivamente infantile, ben lontana dall’innalzare il lungometraggio d’animazione italiana a forma d’arte completa. Almeno per questa volta.
di Tiziana Morganti