«La critica non ha mai capito i miei film» sostiene Michele Placido e aggiunge che il suo Ovunque sei è indirizzato a coloro che hanno amato il precedente Un viaggio chiamato amore. Ma si dà il caso che alla sottoscritta Un viaggio chiamato amore sia piaciuto e anche tanto, eppure questa nuova pellicola non riesco proprio a digerirla. Placido è un bravo regista e, al contrario delle leggende urbane, è anche una persona disponibile alle critiche e propensa all’umiltà, eppure quest’opera tradisce il suo talento. L’idea di base non era affatto male, con tutte le implicazioni che una riflessione sulla vita e la morte porta con sé, ma il problema si avverte già dai titoli di testa.
Quattro sceneggiatori, alcuni tra i migliori che abbiamo qui in Italia, troppo diversi tra loro, che lavorano allo stesso script. Il problema sta alla base quando si è in troppi galli a cantare. E infatti ciò che ha scatenato l’ilarità delle platee in quel di Venezia sono stati proprio i dialoghi, i personaggi che si parlano inutilmente addosso, pronunciano frasi che suscitano ciò che ogni cineasta teme di più: l’umorismo involontario. Peccato per bravi attori, peccato per Accorsi che è e resta uno dei miei preferiti, per Dionisi che pure è il migliore del film (ma la battuta più demenziale è la sua: «lui morto e io sono qui») e peccato per la scommessa che sulla carta prometteva bene. Una nota per gli scenografi: basta con le case italiane arredate in stile minimal chic, sempre pulite, ordinate, di gran gusto. Dateci realtà, dateci il disordine di una donna che lavora. A questa è morto il marito: vi prego non fateci credere che lavi i pavimenti…
di Federica Aliano