Benvenuta sia la violenza. Non quella gratuita ed offensiva che si cela dietro l’esaltazione del sangue e della morte, ma quella più sottile ed inesorabile che si nasconde in uno sguardo, nell’ oppressione dell’animo, nella consapevolezza di un destino inesorabile. Quel tipo di violenza silenziosa e costante che alimenta estremismi religiosi e che si nutre nel cuore di uomini destinati ad un assurdo ed inutile martirio in nome di una riabilitazione familiare e che permette a noi di conoscere la situazione di un paese il cui nome rimbomba quasi quotidianamente nei titoli dei nostri telegiornali ma che, ricoperto dall’ assuefazione generale, appare egoisticamente troppo distante. Hany Abu-Assad, nonostante la sua volontà di realizzare un semplice thriller ambientato profondamente nella realtà della propria terra, ci ha consegnato l’immagine sintetica ed altamente evocativa di una Palestina ferita ed umiliata, un paese sotto assedio che, al di là della più semplice e meno efficace filosofia di distruzione terroristica, comincia a credere in una battaglia che possa essere più culturale e morale. Paradise Now è il percorso interiore di due kamikaze prescelti da una organizzazione di liberazione per effettuare un nuovo attacco nei confronti di Israele, un cammino che inizia nella chiarezza e nella sicurezza ma che durante lo scorrere di ventiquattro ore si arricchisce di indecisione e cambiamenti di prospettiva. In questo modo ci viene offerta la possibilità di dare un volto ed un nome a ciò che prima poteva essere un mero fatto di cronaca internazionale, in un modo che avvicina queste due entità così insistentemente a noi che risulta impossibile non chiamarli uomini.
Nello scandagliare tra i meandri della loro quotidiana esistenza, nel puntare la macchina da presa sui volti dolcemente afflitti e saggiamente moderati delle donne a loro vicine Hany Abu-Assad disegna la traiettoria di un dolore e di una violenza che si fa sempre più imperiosa e forte mano a mano che ci si avvicina al cuore di una esaltazione che in nome di Dio benedice la morte. Una regia molto asciutta accoglie ed espone questi personaggi a tratti pasoliniani dai volti scavati e dalla dura consapevolezza che spegne la speranza dei loro sguardi , li ritrae vittime e carnefici durante un’ ultima cena all’interno del quale è riservato il ruolo di agnelli sacrificali dispensatori di distruzione. Ma al di là dell’ evocazione stilistica ciò che rimane, che imprime fortemente la sua presenza è l’angoscia di fronte ad una presa di coscienza, ad un destino ineluttabile il cui peso è stato ereditato da padre in figlio. Inevitabile dire quanto questo film possa essere importante ora più che mai. Lontano dalle caratteristiche tipiche del documentario e dalla asettica cronaca di uno speciale Paradise Now apre uno spiraglio sull’uomo, permette ai nostri occhi di percorrere le strade distrutte di una realtà impossibile da immaginare e percepire, offre la possibilità di avvicinarsi ad una cultura che oggi, proprio grazie al cinema, comincia ad esistere di fronte agli occhi del mondo. Senza servirsi di un solo momento di enfatica violenza, fermandosi esattamente un attimo prima dello scoppio di una bomba, Hany Abu-Assad mozza il fiato dello spettatore ed appesantisce gli animi con interrogativi ineluttabili. Quale differenza corre tra vittima ed oppressore? Quanta morale ed etica politica c’è nella nascita di uno Stato come Israele, voluto per soddisfare le esigenze “coloniali” americane mascherate dietro ben note intenzioni “umanitarie”? E soprattutto quanta onestà ed umanità si perde nel continuare a voler evitare la soluzione di un problema sempre più pressante? Adesso sembra essere arrivato il momento delle risposte.
di Tiziana Morganti