Dopo gli inizi trascorsi ad incarnare l’icona sexy degli anni Ottanta in perfetto stile Armani e gli ultimi dieci a cercare di uscire da questa scontata iconografia, Richard Gere sembra arrivato ad un tappa fondamentale in cui è possibile ricoprire il ruolo di un padre di famiglia illuminato dalla fede. Credibile? Considerando che nessuno può rimanere un sex symbol per tutta la vita (fatta eccezione forse per Sean Connery) l’ex “american gigolò” sembra aver comunque scelto con poca accuratezza l’occasione per vestire dei panni insoliti. Tratto dall’intenso romanzo La stagione delle api (edito in Italia da Fazi), Parole d’amore, diretto dalla coppia Scott McGehee e David Siegel, cade all’interno di una confusione stilistica e verbale che stordisce ed esaspera, rendendo profondamente insopportabile il più classico tra i melodrammi. Al centro della sceneggiatura scritta da Naomi Foner Gyllenhall (madre di Jake e Maggie e candidata all’Oscar per lo script di Vivere in fuga) si trova la classica famiglia americana che vive l’incubo di una perfezione anelata, mostrata ma mai realmente conquistata. Se a questo aggiungiamo una certa ‘incomunicabilità di fondo, ecco che il ben noto spettacolo del disfacimento del nucleo domestico torna in scena senza variare di una sola virgola dai suoi predecessori.
Accanto ad una Juliette Binoche onestamente spaurita nell’esasperare la sua fragilità emotiva ed un Gere in piena crisi di onnipotenza mistica ebraica (a ben pensarci potrebbe essere la giusta risposta ai furori cattolici di Gibson), si delinea la figura fragile ed infantile della piccola Eliza (Flora Cross) a cui, grazie alla sua particolare abilità nello spelling, registi e sceneggiatrice affidano il compito di scavare nelle frasi che eccheggiano tra le mura della sua casa, cercando di scoprire in esse un significato ed un senso logico capace di salvare l’insalvabile. Dunque ecco a voi un perfetto panettone di Natale infarcito di buoni propositi e di moniti utili per il futuro. Una sdolcinata e soporifera strenna di cui la Gyllenhall, a dire il vero, è responsabile solo in parte. Infatti se è pur vero che l’idea di una vicenda umana basata interamente su parole capaci di arrivare fino a Dio e di creare effetti devastanti sugli uomini è valida ed interessante, non sempre un mondo immaginato e descritto attraverso un determinato pathos può essere rappresentato e filmato con altrettanto effetto. Da qui l’accorato e sincero invito rivolto ai registi di abbandonare il genere. In fondo il mondo del cinema offre infinite possibilità narrative.
di Tiziana Morganti