In un panorama cinematografico italiano in cui registi anche attempati arrancano su un’attualità sgusciante e neutra che si presta a cliché da commedia spicciola o a drammi congegnati sulla (ir)realtà televisiva, l’esordiente Saverio Costanzo, forte del suo passato da documentarista, si fa portavoce al di sopra delle parti di una tragedia storica che ha scatenato l’attuale instabilità politica mondiale, ovvero la quasi impossibile coabitazione tra ebrei di Israele e palestinesi nella striscia di terra che appartiene ad entrambi, per elezione o diritto acquisto. Il primo lungometraggio del trentenne è stato seguito con particolare interesse al Festival di Locarno, dove ha vinto il Pardo d’Oro ed ha permesso il riconoscimento come migliore attore di Mohammad Bakri che impersona il professore di lingua inglese di origine palestinese che si ritrova a coabitare con un manipolo di soldati israeliani che, casa per casa, controllano eventuali attività terroristiche della parte avversa. Girato in Calabria, su una collina brulla ed impervia, in un’abitazione isolata e sguarnita di chi aggiunge piani e finestre quando ci sono i soldi, perché i dintorni di Gaza sarebbero stati troppo pericolosi e avrebbero innescato nella troupe un surplus di confusione e di risentimento, la fiction ha preso il sopravvento sull’iniziale descrizione documentaria di Costanzo, che ha focalizzato il suo sguardo oggettivo sulle vicende di una famiglia assediata, sulle dinamiche familiari, trovando l’escamotage stilistico di far nascondere la figlia maggiore nell’armadio, dove quotidianamente spia le azioni degli oppressori che hanno preso possesso del secondo piano, per dare consistenza ed umanità a soldati apparentemente brutali e senza cuore.
La ferocia e l’orrore restano, ma non hanno etichette o derive ideologiche (non c’è antisemitismo, magari una guardinga critica all’operato politico dell’establishment israeliano e di contro non c’è partigianeria verso gli oppressi, solamente una comprensibile pietas) e lo script prende la strana levità di una voce di donna (la ragazza) che cede al bisogno del fratellino del “Raccontami una storia, come sono loro?”. Le menzogne di una narrazione fiabesca per calmare il terrore negli occhi di un frugolo di cinque anni danno il senso e l’urgenza di uno strazio storico agghiacciante. Persone che si odiano tra loro, che non parlano la stessa lingua e non vogliono cedere la propria dignità e libertà alla Storia, macigno pesantissimo da portare sulle spalle. Un sortilegio, quasi che i bambini (e il cinema) potessero realmente salvare il mondo o farlo crollare del tutto. Il buio, la fotografia sgranata, la macchina da presa del regista non ha balzi di presunzione, la drammaturgia non è evidenziata da retorici controcampi. I piani sequenza scandiscono i giorni e la notte tempestosi di visi lividi, di una quotidianità attraversata da una costante suspense, di porte chiuse e di bimbe ammutolite dalla paura. Il cammino è lungo, periglioso, non ha spiragli né a breve, né a medio termine. Purtroppo.
di Vincenzo Mazzaccaro