John Madden non è un grande regista, non ha realizzato opere indimenticabili nella storia del cinema, eccetto quella gradevole parentesi di qualche anno fa, Shakespeare in Love,che valse la statuetta all’interprete femminile e una pioggia di granulosi dollaroni alla Miramax. Lo stesso poi si presentava qualche tempo più tardi con una pellicola completamente falsata Il mandolino del Capitano Corelli raccontando una improbabile love story fra un soldato dell’esercito italiano sbarcato in Grecia e una giovane del luogo. Dopo un periodo di silenzi dedicato ad altro, eccolo ritornare in grande spolvero sul set confermando il successo di una commedia da palcoscenico, Proof, scritta e ideata dal Premio Pulitzer David Auburn. Per questi e altri motivi si avverte un certo gusto misto ad entusiasmo per la sua nuova fatica trasposta dalle quinte dei teatri newyorchesi alla macchina da presa. La storia vede un difficile rapporto fra padri e figli in un contesto, la genialità matematica, naufragata nella follia: Sir Antony Hopkins, dopo una lunga assenza, torna a mettere i panni di un gran bel personaggio davanti (per sua stessa ammissione) ad una delle attrici migliori con il quale abbia mai lavorato, Gwyneth Paltrow. Il film si articola in due parti, la prima dedicata alla rimozione del lutto di un uomo, genitore, guida nonché fenomeno della società, e sua figlia Catherine angosciata e sconvolta dal timore di aver ereditato lo stesso gene malato; la seconda invece guarda al conflitto con l’altra primogenita Claire (donna d’affari lontana dai luoghi d’origine) tornata per il funerale del padre e disposta a portare con sé la sorella (legatasi al musicista Hal) lontana dall’universo paranoico dentro la quale è invischiata.
Con un copione di fitti dialoghi cucito di tutto punto dagli sceneggiatori (Auburn – Miller) quella che doveva essere una piece da quartieri alti si trasforma in un dramma intimo e personale dove emerge tutta la bravura di una star particolarmente a suo agio nei ruoli intensi dai risvolti inaspettati (la si ricordi in quella piccola ma folgorante partecipazione a Seven di David Fincher). Se da un lato Proof regala un ring tutto giocato sui differenti metodi di studio fra un veterano e una grande conferma della settima arte, dall’altro offre la possibilità di ammirare anche una promessa come Jake Gyllenhaal (vera rivelazione di questo Festival) e una Hope Davis, gia vista in altre occasioni, ma mai così in parte. Il cuore del dramma si fonda sul tormento provato dalla povera e instabile donna troppo a contatto con le bizze e le stramberie del bisbetico capofamiglia autore di uno dei teoremi più rivoluzionari di tutti i tempi. La nuova Grace Kelly forse avrebbe meritato di più ma, si sa, in laguna i prodotti americani non sono visti di buon occhio dalla critica benché gran parte del pubblico li apprezzi; Venezia 62 ha proposto una serie di meritevoli episodi di buon cinema e il trionfo di George Clooney è l’esempio che negli States non si realizzano solo blockbuster da sicuri incassi al botteghino.
di Ilario Pieri