Questa è l’incredibile storia del più lungo processo d’America. Il processo contro il clan Lucchese durò 21 mesi tra il 1987 e il 1988, tra i protagonisti 20 imputati chiamati a rispondere di 76 diversi capi d’accusa, 20 avvocati difensori, 8 giurati sostitutivi. Il titolo originale ancora una volta supera le nostre ammiccanti traduzioni. Infatti Find Me Guilty racchiude in sé il cuore del film, la sua morale. Un dozzinale boss, Jack DiNorscio (un insolito Vin Diesel), decide di difendersi da solo nonostante manchi anche della licenza media. Così il processo viene spettacolarizzato da quello che più che un cinico boss mafioso pare essere il giullare alla corte del sovrano (ottimo il giudice di Ron Silver). Come si sa il giullare non si limitava a divertire, ma si serviva dell’ilarità per far riflettere. In qualche modo il buffone medievale anticipò l’ironia di Pirandello. Certo paragonare un grossolano italoamericano borioso, la cui ignoranza è seconda solo alla sua arroganza (parola dell’avvocato Peter Dinklage), al grande autore siciliano suona blasfemo, ma forse rende l’idea. Necessariamente in casi come questo la simpatia va tutta per il protagonista, sia pure un ladro, un assassino, un drogato. È inevitabile propendere per un tale simpaticone, per quanto volgarotto e rozzo esso sia. Tuttavia inquietante tenendo conto che si tratta di una storia vera fatta da vere persone.
E così mentre gli italiani con le loro croci al collo e le loro mogli generose nelle forme muovono l’anima del processo e del film, al contrario il mondo degli avvocati accusatori appare grigio, spento, incolore. Girato quasi completamente in interni (carcere e tribunale) e illuminato di una luce quasi anni ’50 grazie, che predilige i grigi e i marroni, data dal direttore della fotografia Ron Fortunato. Non uno dei più grandi film di Sidney Lumet ma rappresentativo dei temi più cari al regista, giustizia, criminalità e redenzione. Incredibile che dopo ben 50 candidature all’oscar solo l’anno scorso gli sia stata conferita la statuetta alla carriera. La storia diverte, ma è una storia vera, ed è agghiacciante che in un paese come l’America si possano vivere situazioni come questa. Esecrabile non solo la durata del processo, ma soprattutto la buffonata che ne è scaturita, oltre che la sua conclusione. Se fosse stata una storia di fantasia sarebbe stata un’ottima brillante sceneggiatura e il regista sarebbe stato dotato di inventiva ed originalità nel genere (se non si pensa al film Mio cugino Vincenzo), ma la veridicità del tutto ci fa sentire dei pagliacci che dibattono davanti alla scritta “Fiat justica et ruat caelum”, dimostrandone l’inadeguatezza, allora come adesso.
di Claudia Lobina