Nel cinema italiano vi è solo una esigua certezza: i giovani registi che passano alla fiction hanno alle spalle un considerevole bagaglio di esperienze documentaristiche, che toglie ai loro primi lungometraggi quella brutta malattia nota come “minimalismo autobiografico”. Non che vadano in cerca di massimi sistemi, ma loro urgenza narrativa si amplia in un quadro più profondo, tra riflessioni storiche senza derive sociologiche (vedi Private di Saverio Costanzo) o fotografie familiari che non cadono in un trito cliché televisivo. Il film di Stefano Mordini ha il merito di saper rappresentare, con uno stile ellittico e nervoso, il disagio di un amore che non trova un proprio percorso di senso e significazione in una società omologata alla competitività professionale e al cannibalismo di tanti piccoli individualismi che chiedono un “mostruoso” posto al sole. Silvia e Marco Battaglia non riescono ad esplicitare il loro “modus vivendi”, quasi fosse immorale accontentarsi di quanto basta, lavorare di notte accettando turni proibitivi per qualche soldo in più, rotolare con i figli tra lenzuola non pulitissime, guardare la tv senza necessariamente identificarsi coi suoi modelli. Amarsi non basta, c’è la scuola, la famiglia d’origine, lo stipendio, il decoro e la loro vita un po’ allo sbando che spacca i nervi, che insinua il sentimento della vergogna. L’Istituzione politica e sociale non accetta i perdenti “consapevoli”, ovvero anime semplici e felici del poco e del tutto che hanno messo nel proprio vissuto.
La moglie, quindi, agli occhi della sua stessa madre sembra soltanto una povera pazza, una che mostra le cosce mentre cammina per strada, che non sa badare ai figli con quella sollecitudine di genitrice da “Mulino Bianco”, il marito, un tizio che si accontenta di stare in mutande guardando con occhio tenero e stanco i propri figli, un tipo che si ascolta e non agisce in base ad una simulata aggressività da “maschio vincente”. L’amore coniugale si sfalda e si compatta tra tradimenti fisici che non addomesticano il dolore di una figlia tolta e data in affidamento, e un nuovo bimbo in grembo nato per disattenzione, per eccessiva sconsideratezza. Le reazioni del marito, mute, quasi assonnate, irritano, mettono angoscia e disagio, ma sono dettate da una gelosia amorosa non traducibile in atti di eroismo spaccone o in loquacità da talk show pomeridiano. Prendere o lasciare: Mordini pare il primo a sorprendersi del modo di comportarsi dei suoi stessi personaggi. Gli attori, lo si capisce subito, avendo sposato in pieno una sceneggiatura aspra ed eternamente “in progress”, sono bravissimi: Stefano Accorsi non lo si è visto così in parte da Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek e nemmeno quando vinse il Leone d’Oro, a Venezia, per Un viaggio chiamato amore di Michele Placido. Valentina Cervi dà nervi e sostanza ad una donna a pezzi che nessuno vorrebbe come moglie, mentre Ivan Franek è nell’immaginario del cinema d’autore l’emblema dello sradicato, dell’uomo che non ritroverà mai la sua Itaca. Un’opera mai banale, ammaliante anche in conclusioni narrative affrettate, fotografata splendidamente, con musiche che seguono gli smottamenti del cuore dei personaggi. Stefano Mordini è un nuovo regista italiano giovane e promettente e c’è n’era un gran bisogno.
di Vincenzo Mazzaccaro