Cosa voleva dire per una ragazza scoprirsi incinta negli anni Sessanta, quando la legge vietava e puniva l’aborto. Ce lo ricorda lo struggente, coinvolgente film La scelta di Anne, sceneggiato e diretto da Audrey Diwan, meritato Leone D’Oro al Festival di Venezia, nelle sale dal 4 novembre con Europictures. Tratto dal romanzo autobiografico L’événement di Annie Ernaux, magistralmente interpretata da Anamaria Vartolomei, il film fa penetrare lo spettatore nella pelle e nei sentimenti di una giovane donna che decide di abortire nella Francia nel 1963 che condanna il desiderio delle donne, e il sesso in generale. Una storia semplice e dura, che ripercorre il cammino di chi decide di agire contro la legge, rischiando la vita e la galera. Argomenti affrontati in maniera concreta nel libro che la regista ha cercato di tradurre in immagini che permettessero allo spettatore di fare un’esperienza fisica di questo racconto, al di là dell’epoca e a prescindere dal sesso.
Un esperimento riuscito, che la stessa Ernaux ha promosso definendolo “un film giusto”, che non dimostra, non giudica, non drammatizza. Segue Anne nella sua vita e nel suo mondo di studentessa, tra il momento in cui aspetta invano l’arrivo delle mestruazioni, e quello in cui la gravidanza è alle sue spalle, in cui «l’evento» ha avuto luogo. E’ attraverso lo sguardo di Anne, i suoi gesti, il suo modo di comportarsi con gli altri, di camminare, i suoi silenzi, che si avverte il cambiamento improvviso prodotto nella sua vita, nel suo corpo che si appesantisce, scosso dalla nausea. Che entriamo nell’orrore indicibile del tempo che scorre e viene scandito in settimane sullo schermo, lo sgomento e lo sconforto per soluzioni che vengono meno, la determinazione di andare fino in fondo.
“Non posso immaginare nessuno al posto di Anamaria Vartolomei per impersonare Anne, e, in un certo senso, me stessa a ventitré anni, con una veridicità e una giustezza che sconvolgono i miei ricordi- ha spiegato Ernaux -. Ma, ai miei occhi, il film non avrebbe potuto essere del tutto giusto se avesse occultato le pratiche alle quali le donne hanno fatto ricorso prima della legge Veil. Audrey Diwan ha il coraggio di mostrarle nella loro realtà brutale, il ferro da calza, la sonda introdotta nell’utero da una «fabbricante di angeli». Perché è solo così, nella sensazione di disturbo suscitata da queste immagini, che possiamo prendere coscienza di quanto è stato inflitto al corpo di quelle donne e di quello che significherebbe tornare indietro”.