E’ il primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra, in Sicilia, quando qualcuno spara sulla folla, causando la strage tra i partecipanti alla Festa del Lavoro. Immediatamente viene identificato come esecutore materiale il bandito Giuliano che troverà la morte, poco dopo, per mano del capitano Perenze. Undici morti e ventisette feriti tra i monti Pizzuta e Kumeta a dare vita ad un evento sanguinoso che il Governo si precipitò a catalogare tra i “Segreti di Stato”. Verità celate, compromessi accettati, alleanze strette per caratterizzare un Italia impetuosa e contadina ancora lontana dall’essere una Repubblica. Per raccontare una classe politica detentrice di un potere ottenuto grazie all’intervento della malavita locale. Storia gestita, pilotata. Non sempre comprovata. E la verità da che parte sta? Paolo Benvenuti non intende e, soprattutto, non ha alcun interesse a dare una risposta definitiva. Sempre che questo sia possibile. Attraverso uno stile asciutto ed essenziale realizza un film semplice, alla portata di tutti. Perché gli italiani sappiano che ” Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica e le regole della politica italiana di mezzo secolo che sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage” (Danilo Dolci). Ma la vera scintilla generatrice è la curiosità Quella che ha dato vigore ed entusiasmo ad una accurata ricerca durata sei anni tra i documenti desecretati dall’antimafia. Trasferitasi nella figura cinematografica dell’avvocato (Antonio Catania), impegnato intellettualmente e fisicamente nella difficoltosa scalata dell’immagine rappresentativa di un monte che si scopre vulcano, cratere, magma ed esplosioni. Quella stessa che con lenta ma costante progressione circuisce, seduce lo spettatore fino a condurlo nei meandri più sottili del ragionamento investigativo. Un cinema che non esibisce mai. Ma che osserva le differenze. Che fa nascere dubbi. Un percorso narrativo costruito attraverso le contraddizioni, ripercorrendo domande e risposte che diventano tappe di un itinerario logico. Non realista come Rossellini, né di denuncia come Rosi, il linguaggio cinematografico di Benvenuti è maieutico, riuscendo a produrre un vero parto del pensiero. Fermo, immobile. Poco propositivo, praticamente privo di innovazioni registiche trova la sua forza nelle forme alternative di messa inscena utilizzate. In quel tavolo sul quale, lentamente ma con lucida sicurezza, si stendono le carte di un intricato solitario “giocato” a troppe mani. E la posta in palio è l’Italia. Il controllo. Il potere. Nomi e volti pronunciati e mostrati senza pudori o timori. Il brivido si sente, si avverte. Perché potrebbe essere possibile. Ipotizzabile. Pensabile. Come la morte di colui che sa vista attraverso il riflesso di uno specchio. Terzo occhio rivelatore, indiscreto concede al pubblico il prezioso privilegio di essere il primo a comprendere e capire il tradimento attraverso l’inossidabile formula hitchockiana della suspance. E alla fine di tutto, quando si accendono le luci in sala e si avverte la piacevole sensazione di aver assistito ad una porzione di verità, si sente il bisogno che la parola torni alla storia perché dia luce alle ultime ombre dei suoi Segreti di Stato.
di Tiziana Morganti