Nel 1946 il brigadiere Gatta inizia a prestare servizio in una caserma del napoletano. La guerra è da poco terminata ma, a quanto pare, gli equilibri della piccola comunità non hanno subito eccessivi stravolgimenti. Animato da un profondo senso di giustizia e poco convinto dal lavoro svolto prima del suo arrivo, il giovane carabiniere comincia ad indagare su un terribile sospetto che – come un’ombra – grava intorno ai componenti della famiglia De Rosa. Proprietari di un albergo, gli stessi custodiscono una serie di segreti e misteriosi omicidi sin dal 1940. Rapito dalla sceneggiatura di Brenta e Pasquini, Lucio Gaudino dirige questa pellicola che oscilla fra il giallo e il noir, tutta impostata su una coralità di azioni e sguardi, strutturata circolarmente (la vicenda viene filmicamente raccontata nell’arco di una nottata d’appostamento del brigadiere Gatta) e ben supportata dalla fotografia di Maurizio Calvesi e dalle musiche di Umberto Sangiovanni (anche se il tema principale sembra di molto ispirato a quello usato da Badalamenti per Mulholland Drive). Girato con mano didascalica e penalizzato, soprattutto nelle fasi iniziali, dal suono in presa diretta, il film procede per sbalzi temporali, alternando ai flashback – atti all’esposizione cronologica di come effettivamente andarono le cose (la famiglia De Rosa costretta ad una serie di omertose complicità in omicidio con il padre padrone Giuseppe) – l’attuale e continuo cammino verso la verità intrapreso dal temerario carabiniere. Proprio questo aspetto, indubbiamente affascinante, rischia però più volte di sfuggire dalla presa del regista: quello che ne deriva è un susseguirsi e un sovrapporsi, spesso caotico, di dimensioni temporali differenti che, a lungo andare, finiscono per annebbiare il pathos della narrazione. Pathos di per sé già seriamente opacizzato dalla volontà – evidente sin dall’inizio – di mantenere un distacco formale e stilistico da quanto viene raccontato: la freddezza con cui la macchina da presa si muove nei meandri di un contesto così tenebroso può risultare funzionale solo a tratti, mai compiutamente, con la conseguenza inevitabile di creare un’atmosfera sì cupa, forse agghiacciante, mai però capace di avvolgere – empaticamente – lo sguardo.
di Valerio Sammarco