Chi è il reale protagonista de La terra?
È la tragedia del Sud Italia, rappresentata e incarnata dalla proprietà, dalla “roba” che tende a rovinare i rapporti familiari.
C’è qualcosa di autobiografico nel suo film?
Ogni cosa che facciamo è autobiografica. Ogni cosa rispecchia ciò che siamo. Io ho tre fratelli maschi e conosco gli effetti devastanti della proprietà. So quanto la proprietà divida. È per questo che non voglio avere nulla, non essere padrone di nulla. In casa mia affittiamo tutto. Sbarazzarsi delle cose è l’unico modo per riscoprire i rapporti umani e il personaggio di Fabrizio Bentivoglio lo capisce benissimo. La masseria della famiglia Di Santo è appunto un ostacolo allo sviluppo della loro affettività.
C’è stato un evento particolare nella sua vita che ha dato vita a questa idea?
È nato tutto quando ho sentito un avvicinamento aggressivo della mia famiglia, che mi chiedeva di occuparmi di una serie di cose delle quali ero stato fino ad allora completamente estraneo. Eppure non ti puoi esimere, non puoi scappare. Non perché tu sia costretto, ma perché c’è qualcosa di imperscrutabile che ti lega ai tuoi doveri familiari. In fondo noi siamo la nostra storia, la nostra memoria. Siamo stratificazioni di memoria e non ci possiamo esimere dall’appartenere a qualcosa. Se non si ha memoria non si è nulla.
È cambiata la sua idea della Puglia durante la lavorazione di questo film?
È cambiata proprio la Puglia, da quando è nata l’idea del film ad oggi che l’abbiamo realizzato. All’inizio la storia era diversa: i fratelli prendevano la terra, ci si stabilivano insieme e mettevano su un agriturismo. Ma questo poteva accadere negli anni ’80. Oggi non era credibile una cosa del genere. Ai giorni nostri la terra è qualcosa di cui doversi sbarazzare, non è più un bene da conservare ad ogni costo. Allora ben vengano gli stranieri disposti a comprarla.
Quindi è cambiato anche il ruolo di Bentivoglio?
Certo. All’inizio lui doveva rimanere. Invece oggi riparte con un senso di liberazione nel cuore.
C’è una punta di malinconia in questo?
Forse sì. Volevo raccontare il lato oscuro di un mondo ancora attuale e con un finale non certo rassicurante. Forse perché anch’io sono cambiato nel tempo. Oggi faccio cinema non solo come alternativa al teatro ma con una maggiore consapevolezza.
In un film come La terra, così pieno di generi e cambi di registro (si va dal dramma, alla commedia, al thriller, al western) c’è qualche riferimento cinematografico o letterario?
I personaggi sono in parte ispirati all’aristocrazia terriera rappresentata da Dostoevskij ne I fratelli Karamazov. C’è anche Visconti con Rocco e i suoi fratelli. Ho preso tutto questo e l’ho portato a Mesagne, un paesino della Puglia. Alla base c’era comunque l’idea di realizzare un giallo, dove c’è un delitto e un assassino da identificare. Mi piace che la chiave di lettura sia questa.
Perché l’idea di un giallo?
Perché ritenevo interessante rappresentare l’ennesimo delitto senza castigo, elemento molto attuale e conseguenza di una giustizia ambigua che prevede la legge degli uomini e non la legge dello Stato.
Dodici anni dopo l’esperienza non proprio positiva de La bionda torna a lavorare con Domenico Procacci…
Perché Procacci è pugliese come me ed era l’unico in grado di capire questo film fino in fondo. Devo anche dargli il merito di aver scelto per me il ruolo di Tonino. È stato lui a consigliarmi di farlo.
La masseria sembra un fortino messicano, così come certe inquadrature ricordano un’ambientazione da Far West…
Perché il West ricorda quel senso di solitudine di un uomo che si trova a risolvere i problemi senza alcun appoggio.