Dopo la perfezione stilistico-narrativa raggiunta con La 25ª ora, suo capolavoro, Spike Lee non poteva che rifugiarsi in un racconto meno articolato o forse meno sentito. Pur costituendo un’opera minore rispetto alla precedente, She Hate Me rimane comunque un ‘divertissement’ di classe, un gioco artistico e intellettuale in cui il regista però non abbandona i temi a lui cari, quali il desiderio di descrivere la sua città, New York, in tutte le sue possibili sfumature, in ogni aspetto culturale e sociologico. La vicenda giudiziaria del protagonista serve a Lee come pretesto per mettere su un vero e proprio “teatrino” di personaggi curiosi, alternativi o ‘borderline’, creature che costituiscono il reale tessuto internazionale della metropoli americana. Durante questa virtuale passerella di caratteri umani sfilano dunque avvocati, imprenditori corrotti, lesbiche confuse e mafiosi italiani, quanto di più bizzarro o curioso si possa incontrare per le strade della ‘Grande Mela’. Nel complesso però il film appare poco incisivo, sfilacciato, indeciso se intraprendere la strada della commedia, del grottesco o della critica sociale. È un’opera che indubbiamente verrà ricordata per il suo cast internazionale azzeccato, per le battute pungenti sulla politica americana, per gli inserti tragicomici e per alcune situazioni al limite del paradossale. Ma questo di Spike Lee è anche un film coraggioso nel rappresentare la confusione sessuale odierna e nel trattare con estrema delicatezza il tema dell’omosessualità femminile, in particolare delle donne lesbiche desiderose di concretizzare il proprio desiderio di maternità. Particolare merito va poi riconosciuto al regista afro-americano per aver reso credibile Monica Bellucci in un ruolo per lei inusuale, quello di una lesbica divertente e affascinante, figlia di un mafioso italiano che si crede il Marlon Brando del Padrino.
di Simone Carletti