Il boia si staglia su un paesaggio vuoto come un deserto, mira e spara. Si ferma, riprende fiato, si asciuga l’occhio, riprende la mira e spara di nuovo. Contro un muro di pietra, tre sagome quasi senza volto pronte alla morte ma al boia, un attimo prima che prema il grilletto, viene ordinato di fermarsi perché la donna che sta per uccidere è una vergine e le vergini, se muoiono, vanno in paradiso. Per mandarla all’inferno lui deve prima sposarla e, subito dopo, ucciderla. La storia sarebbe, allora, quella del boia che, di fronte a questo ordine, viene afferrato dal dubbio e proprio il tentennamento è il Silenzio tra due pensieri del titolo. Sarebbe ma il film, di fatto, non c’è. O, almeno, non c’è il negativo del film originale che è stato sequestrato al regista Babak Payami dal governo iraniano senza che si sappia neppure il perché. Semplicemente, racconta il giovane regista iraniano, «Alcuni uomini in borghese mi hanno prelevato in strada, mi hanno arrestato, mi hanno interrogato, mi hanno maltrattato (anche se solo a parole) e chi mi parlava mi ha detto che il mio film, anche se lui non lo aveva visto, era una vergogna per il modo in cui io racconto il paese e andava bloccato. E io non so neppure chi ha dato l’ordine di arrestarmi. Ho cercato di saperlo ma non ci sono riuscito. E ancora oggi sono scettico sul domani in Iran. Temo che continuerà questo gioco del gatto col topo, tra artisti e uomini del sistema, non credo che casi come il mio siano isolati o possano non ripetersi». Intanto ciò che resta è solo il materiale di lavoro, il girato (formalmente molto approssimativo) a tre miglia dal confine con l’Afghanistan, con attori non professionisti, gente del luogo («Con cui abbiamo dovuto amalgamarci molto lentamente per avere la loro fiducia e poter girare soprattutto le scene con le donne che, in quella regione, non possono neppure essere avvicinate») e con un protagonista, Kamal Naroui che nella vita è un maestro di kung fu. Resta, cioè, il materiale salvato e ricucito: il contenuto c’è interamente, la forma e la confezione è imperfetta, qualitativamente scadente, e carica di nostalgia per il ricordo di un film morto appena nato, prima che qualcuno potesse vederlo sul grande schermo.
Così Il silenzio tra due pensieri arriva sui nostri, portando la firma anche di Pasquale Scimeca, «Perché c’è stato un momento in cui questo film stava smettendo di respirare e aveva bisogno di un trattamento d’urto, di una respirazione artificiale e Pasquale ha contribuito a mantenerlo in vita, così come l’Istituto Luce». Ma i film, per Payami, sono come gli uomini, come i sentimenti e come le note, così lui di questo film perduto e avventurosamente ricostruito, si è fatto un’immagine precisa: «Somiglia a una persona che ha fatto un viaggio molto pericoloso, ritorna con tante storie da raccontare e tante lacrime negli occhi e, prima di morire, sia pure a fatica riesce a raccontare queste storie, sporche, disordinate, come i sentimenti che si porta dietro. Del resto uno che fa tutto questo per un film o è pazzo o sa ciò che sta facendo: io vorrei trovarmi in entrambi i casi». E non chiedetegli troppe spiegazioni e dettagli su una storia che lui volutamente lascia nel vago. Non chiedeteglielo perché lui ha la risposta pronta. E agguerrita: «Non volevo fare un film esibizionista per il turista che vuole visitare l’Iran o l’Afghanistan, non volevo giudicare e neppure spiegare. Per me il film è musica: deve trasmettere delle sensazioni e creare dei personaggi non legati necessariamente a un posto o a un luogo. Oltre che suscitare domande». Anche sullo sguardo dell’oggi? Lo sguardo di uno come lui che sulle elezioni in Iran ha girato un intero film (Il voto è segreto), tristemente premonitore? «Non sono politicamente impegnato, vivo in Canada da tempo e non mi riconosco l’autorità per esprimere giudizi politici. In quel film parlavo già di un modo di intendere il voto in quel paese, una cosa che ha ben poco a che vedere con la libertà di scegliere che è legata al concetto di elezioni in Occidente. E oggi non voglio esprimere giudizi su un concetto equivoco come quello delle elezioni in Iran nella situazione attuale: una illusione chiamata elezione, più che una vera elezione».
di Silvia Di Paola