Se vi attanaglia la curiosità di scoprire come un americano medio sintetizza e rappresenta l’essenza dell’italianità, Sotto il sole della Toscana è il film che soddisferà questa esigenza lasciandovi esterefatti e, a tratti, sorpresi. Uno stupore destinato a nascere e crescere grazie ad un ben organizzato festival dell’ovvio e del desueto messo in scena ad arte, scimmiottando le atmosfere anni cinquanta della migliore commedia all’italiana. La regista Audrey Wells stravolge completamente la lineare struttura narrativa dell’omonimo romanzo di Frances Mayers, sicuramente privo di colpi di scena ma dignitosamente realista nella descrizione della provincia toscana, aggiungendo una quantità imbarazzante di stereotipi tra i quali è impossibile rimanere a galla. Dei tre elementi fondamentali, una donna decisa a mutare la propria esistenza, una villa da ricostruire e l’incontro con la cultura italiana che compongono le fondamenta dell’ italico diario della Mayes, non rimangono altro che vaghi accenni dispersi tra gli affannosi tentativi di rappresentare una tipologia d’italiano tanto stratificato nell’ immaginario della straniera, quanto improbabile da rintracciare nella realtà effettiva. Ed eccoci, dunque, costretti ad assistere ad un tripudio di dabbenaggine maschile interpretata da uomini mediamente attraenti pronti a sostenere il valore del flirt come sport nazionale e che, nel pieno di un’improvvisa ed incontrollabile esplosione ormonale mal celata, inseguono e perseguono lungo i vicoli della capitale, al limite della molestia sessuale, un’affascinante e sentimentalmente provata Diane Lane. Un’ atmosfera alla “Poveri ma belli” che incorona l’incontro con il tenebroso Bova nei panni di Marcello, “vaghissimo” e non unico riferimento felliniano, tramite tra la spudorata romanità e la soleggiata atmosfera di una Positano da cartolina fatta di mare, musica, mozzarella e mandolini( ma li costruiscono ancora?). Ed è qui che, nel pieno della più suntuosa e perfetta rappresentazione di un’Italia di cartone, si consuma la passione tra l’ammiccante e sicuro maschio partenopeo e la depressa e leggermente repressa femmina americana, grazie anche all’intervento d’infuocate parole d’amore (“Quanto sono belli i tuoi occhi, Francesca. Io vorrei….mi ci perderei dentro i tuoi occhi”.) capaci di rendere un sex-simbol improvvisamente ridicolo ed il pubblico affranto ed esausto. Audrey Wells dirige un film micidiale ed estenuante per la sua vaghezza. Capace di disperdere e castrare gli elementi che avrebbero potuto donare al film una delicata atmosfera intimistica e di punire l’umorismo ed il senso del ridicolo espresso a corrente alterna dalla Lane. Siamo ben soddisfatti che la cinematografia del nostro passato seduca e ravvivi l’immaginario di registri stranieri ma, pur volendo considerare questo prodotto come un esperimento celebrativo o, quantomeno, volutamente emulativo, sentirsi completamente estranei e non rappresentati da ciò che profondamente dovrebbe appartenerci è una sensazione fisicamente ed intelletualmente sgradevole. Non calatasi mai nella realtà effettiva, la Wells si aggrappa ad una desueta idea d’italianità in perfetto stile Little Italy per costruire un percorso caricaturiale ed asettico dove, unico elemento onesto e reale, rimane la non alterabile bellezza della campagna toscana.
di Tiziana Morganti