Doveva essere l’evento di chiusura di un’estate cinematografica all’insegna della fantascienza ed invece The Island di Michael Bay ha incassato in America poco più della metà di quanto è costato: dicesi “flop” per una stampa sempre ansiosa di apporre l’etichetta. Il nuovo lavoro del regista di Armageddon ci catapulta avanti di vent’anni, all’indomani di un disastro ecologico globale. Quel che resta della razza umana è ospite di uno stabilimento industriale dove si lavora, si mangia e si fa attività fisica sotto il massimo controllo di sofisticati congegni ad alta tecnologia. L’unico modo per uscire da quella condizione è vedere il proprio nome estratto per andare sull’ “Isola”, l’ultimo luogo incontaminato della Terra. Tormentato da incubi inspiegabili, Lincoln 6-Echo (Ewan McGregor) inizia a porsi delle domande sulle restrizioni cui è sottoposto ed inizia a curiosare in zone riservate anche grazie all’aiuto di un addetto ai lavori con l’hobby dei traffici illeciti (Steve Buscemi). Dopo un illuminante giro turistico, Lincoln scopre che le cose non stanno precisamente come pensava. Inizia così la fuga insieme all’amica Jordan 2-Delta (Scarlett Johansson) e con essa un altro film dove la fantascienza lascia il posto all’azione frenetica e, seppur con qualche esagerazione, coinvolgente. All’esterno dello stabilimento “Centerville” di avveniristico rimangono solo i veicoli: elicotteri EC129 – i più silenziosi al mondo – e Concept Car – tra cui una Cadillac Cien del 2002 – disseminate in una futuristica Los Angeles ricostruita a Detroit.
Non troverete i loro nomi nei titoli di coda ma questo film deve molto a Steven Spielberg e George Lucas. Il primo ha passato la sceneggiatura a Michael Bay con la raccomandazione di leggerla tutta d’un fiato, il secondo ha fornito il suo substrato culturale, non solo con le innovazioni apportate al VFX con la Industrial Light & Magic, ma anche con l’illuminante THX 1138, film a cui la produzione ha attinto a piene mani, oltre a tutta un’altra serie di opere sia letterarie che cinematografiche(Coma profondo e La fuga di Logan per citarne alcune). I temi sono di piena attualità e forniscono un ottimo presupposto: disastro ecologico, scienza e etica, clonazione umana; lo stabilimento con il suo direttore nazista Sean Bean sembra riportare alla memoria le paure di diverse epoche storiche. Curiosa l’uscita quasi contemporanea di un libro che ha già fatto scalpore in Francia, La possibilité d’une île (La possibilità di un’isola) di Michel Houllebecq, che ipotizza un futuro basato solo su sesso e clonazione dove le donne sono solo “carne” e i bambini dei “nani viziosi”. Il suo protagonista si chiama Daniel 1, dove quell’ “uno” sta per generazione di clonazione, proprio come il Lincoln di sesta generazione di The Island, così evoluto da aver acquisito proprietà umane adolescenziali come appetito culturale e sessuale. Ebbene la narrazione di Daniel 1 si alterna tra Parigi, Madrid, Lanzarote e Biarritz, con quella dei suoi cloni successivi, fino al viaggio dell’ultimo esemplare Daniel 25 in una Spagna devastata dalle esplosioni nucleari. Illuminante, forse anche per lo sceneggiatore Caspian Tredwell-Owen.
Tra i pregi di un film come The Island, a parte l’impianto da giostra dei divertimenti, è l’ipotetica concezione industriale della clonazione umana, usata per donare agli uomini figli e organi di ricambio di certa provenienza. D’effetto la doppia interpretazione di Ewan McGregor resa ancora più difficile dal background dei personaggi: Lincoln 6-Echo è un clone di tre anni che scopre il mondo, Tom Lincoln – il donatore di DNA o “sponsor” come viene chiamato nel film – è un perfetto imbecille. Un po’ fuori posto la Johansson non abituata a ruoli del genere al contrario dei cattivi Sean Bean e Djimon Hounsou: per quest’ultimo è stata ritagliata una parte davvero affascinante e una scena chiave con una colonna sonora alla Gladiator. Hounsou è l’abile mercenario Albert Laurent, assoldato per inseguire i fuggiaschi e sempre più coinvolto nella vicenda anche sotto il profilo umano, essendo anche lui un “reduce”, un “marchiato”. Ottima la fotografia a due volti di Mauro Fiore e le scenografie di Nigel Phelps. Difficile quindi definire le ragioni di un mancato gradimento da parte del pubblico americano se pensiamo anche che Michael Bay non ha mai affermato di voler realizzare un’opera filosofica alla Minority Reportma «Un film divertente, estivo, che trascinasse il pubblico in una corsa mozzafiato», e in questo c’è riuscito.
di Alessio Sperati