L’ascesa di Ron Howard da ragazzo acqua e sapone di “Happy Days” al premio Oscar per “A Beautiful Mind” è stata continua, non priva di deviazioni e di insuccessi, e tutto sommato meritata. Senza fare paragoni irriverenti, Howard sembrava destinato a diventare il regista Americano con la a maiuscola, erede di un classicismo che qui va inteso soprattutto come piacere per la narrazione pura, linguaggio piano e privo di spigoli, capacità ricettive in grado di intercettare esigenze e aspettative del grande pubblico. E invece, “The Missing” è stato un fallimento (per gli standard americani, in cui il responso del botteghino è sovrano), piaciuto relativamente alla critica e visto poco dal pubblico.
L’impressione è che in parte Howard se la sia cercata, conscio probabilmente che un insuccesso, a questo punto della sua carriera, se lo poteva permettere. In primis per l’ambientazione western, che Costner e Eastwood più di dieci anni fa riportarono agli onori delle prime pagine, per quello che fu più un epitaffio che un rilancio. Secondariamente, perché proprio di ambientazione e basta si deve parlare, giacché Howard sembra poco interessato (o incapace di cogliere?) l’epica classica della frontiera, e preferisce virare su un dramma familiare dalle tinte thriller girato con sensibilità decisamente moderna. Parte bene, “The Missing”, senza fronzoli e perdite di tempo: in due sequenze ci viene presentata la famiglia Gylkeson, in tutta la fierezza femminile di chi ha imparato a camminare da solo e rifiuta stampelle, e assistiamo al ritorno del padre assente, che funge da motore per l’avvio del racconto. La magnifica Cate Blanchett dà il suo meglio proprio all’inizio, quando Howard sembra avere voglia di raccontare i caratteri, di soffermarsi sul dolore, di descrivere una donna cresciuta senza figure maschili di riferimento e che di conseguenza cresce le sue bambine all’insegna dell’indipendenza e della dignità (è dura nel New Mexico del 1885, i Gylkeson sono poveri, e questo è certamente uno degli elementi che non ha sedotto il pubblico americano). Poi Howard prende a concentrarsi troppo sui meccanismi del racconto, tra inseguimenti, agguati, fallimenti e nuovi tentativi di strappare Lilly dalle mani del folle Chidin. Ecco, da una parte si indugia troppo sul cotè sovrannaturale dei poteri Apache, dall’altra Howard non ci dà il tempo (e non si prende il tempo, nonostante i centotrenta minuti totali) di fissare in faccia i protagonisti e di ‘sentire’ il mutamento dei rapporti tra di loro, recuperando in extremis con un confronto padre-figlia che è infatti uno dei momenti alti del film.
Non ingannino le critiche, dettate anche da alte aspettative. Ron Howard sa fare cinema, non c’è nel film un’inquadratura che sia meno che bella, un passaggio azzardato o un dialogo fuori luogo. Quello che manca è il colpo d’ala, uno scarto improvviso.
di Giorgio Nerone