Cosa ci fa esattamente Monica Bellucci immersa in un’ atmosfera caratterizzata da misteriosi incubi, segni premonitori ed un bambino dalle rare qualità sensoriali che nel sonno parla uno sconosciuto dialetto mongolo? Onestamente ci troviamo di fronte ad un mistero che sembra destinato a rimanere irrisolto, vista l’inconsistenza della vicenda stessa che, per una volta, non è assolutamente all’altezza della sua interprete. Tanto per continuare sull’onda dei “bambini prodigio” (pare che dopo l’avvento de Il sesto senso, un thriller vagamente esoterico non possa rinunciare ad averne uno), The Stone Council offre su un piatto d’argento una vicenda che indiscutibilmente rientra nei canoni peggiori della cinematografia di genere. Unico pregio di questo film, tratto indegnamente dal romanzo di Jean-Christophe Grangé e diretto con poco rispetto della versione originale da Guillaume Nicloux, è quello di aver offerto al pubblico una Bellucci realmente inedita. Vuoi per una fisicità punita e sottomessa o per un francese padroneggiato ed esibito con dovizia, l’attrice ne esce particolarmente credibile nel ritratto di una madre concentrata nel comprendere l’incomprensibile pur di salvare il proprio figlio adottivo da un destino violento. Detto questo si potrebbe aggiungere che l’intera vicenda riesce ad avere consistenza almeno per una buona mezz’ora, dopo di che, più o meno in concomitanza con l’apparizione di aquile, spiriti che s’incarnano in animali o viceversa (questo dovrebbe essere chiarito con maggior precisione come molti altri numerosi “buchi” narrativi) ed un giovane guaritore la cui morte renderebbe immortale il suo assassino, cade vorticosamente nell’oblio cercando di concludere il tutto con una certa velocità ed approssimazione.
Se la prima parte relativa alla scoperta di particolari collegamenti tra passato e presente di madre e figlio inducono ad attivare una certa attenzione, la noia sopraggiunge senza scampo nella seconda sezione in cui appare un action piuttosto improvvisata e con essa anche la prostrazione del pubblico. Nonostante il romanzo di Grangé dedichi particolare attenzione proprio alla cultura di alcune antiche tribù della Mongolia, il film di Nicloux snatura l’originale, vantandosi di non averlo preso molto in considerazione e di aver proibito alla Bellucci di leggerlo per non lasciarsi influenzare dalle sue atmosfere. Viste queste premesse si comprendono gli eccessi d’enfasi e di esagerazione drammaturgica che alcuni sono soliti definire anche come “stile”. Certo è che per trarre un thriller così detto “intimista” da un libro d’avventura piuttosto godibile, non necessita un grande talento quanto una totale assenza di pudore e vergogna. Ma non è giusto sparare a zero solo sull’incapacità o sulle scelte discutibili di un regista. Che ognuno si faccia carico delle proprie responsabilità. Dunque anche una diva intoccabile ed indiscutibile come Catherine Deneuve deve sostenere il peso di una interpretazione che è poco definire gelida, inconsistente ed inespressiva. Alla fine dei giochi un plauso particolare va alla Bellucci, unica attrice in grado di recitare meglio in una lingua straniera rispetto alla propria, innanzitutto per aver avuto il coraggio di rischiare un personaggio così lontano dalla sua riconoscibilità e rappresentazione fisica, portandolo fino in fondo con onestà nonostante alcuni eccessi di enfasi drammatica. Unico dubbio un doppiaggio che toglierà probabilmente al film anche questo raro elemento positivo.
di Tiziana Morganti