Film rigoroso, severo, quello di Greg Zglinski, in concorso a Venzia 61. Fin dalle prime sequenze si comprende che a Jean, un contadino che gestisce una fattoria e a sua moglie Laure è accaduto qualcosa di drammatico. La loro figlia è morta per l’incendio del fienile a causa di un difetto dell’energia elettrica. Lui si sente responsabile, lei impazzisce. Il paesaggio invernale, il freddo, il piccolo paesino alle pendici delle montagne, fanno da sfondo a questo strazio infinito, danno un senso a una straziante elaborazione del lutto. Pochissime le parole, i movimenti sono sincopati, la cinepresa scava quasi con insolenza sui volti disfatti, su anime rotte in attesa di riprendere la via di una difficile ricostruzione individuale. Sembrerebbe dallo stile e dal background del cineasta, di origine polacca, un nuovo episodio del Decalogo di un redivivo Krzystof Kieslowski, ma, durante il film ci si accorge che il pessimismo cosmico del maestro polacco non è totalmente condiviso da Zglinski, che lascia una chance di nuova vita ai suoi personaggi e si apre a problemi del mondo. Jean, che si umilia andando a lavorare in fabbrica, conosce Labinota, una giovane donna del Kossovo, che è stata violentata, alla quale hanno streminato l’intera famiglia, a parte il fratello, e che aspetta l’arrivo del marito scomparso. Tra i due si instaura una bella armonia, ma come lasciare una moglie totalmente bisognosa di un approdo per non cadere definitivamente nell’autodistruzione? Il coraggio di scegliere tra emozioni e morale è un altro tratto distintivo rispetto a Kieslowski. Aurélien Recoing, nel ruolo di un marito con un cuore diviso in due, è straordinario quanto in A tempo pieno di Laurent Cantet, Marie Matheron tratteggia con stilizzata eleganza nei gesti la sua lucida follia, mentre Gabriela Maskula ha negli occhi i segni di una donna violata. Pellicola non certo per famiglie, fin troppo festivaliera, per alcuni, ma assolutamente imperdibile per gli amanti di un cinema essenziale e non “carino”.
di Vincenzo Mazzaccaro