L’epopea dell’aedo cieco, noto come Omero, ha superato le traversie del tempo, ora dovrà superare il rimaneggiamento di uno sceneggiatore di Hollywood che per motivi drammaturgici ha fatto un collage di tutta l’epica greca e latina che riguardi la battaglia ai piedi del monte Ilio. Riuscire a parlare di mitologia greca senza fornirle spessore, sovrasensi, allegorie e tralasciando il “deus ex machina” è un’impresa piuttosto ardua, ma portata a termine in previsione di un destinatario finale che è il modello di spettatore “Homer”, lo spettatore lobotomizzato, ovvero il perfetto idiota. Sconvolge la tendenza a convergere verso un tipo di linguaggio filmico da ipnosi collettiva, da fabulismo oculistico che deve far perdere ogni necessità di intellezione. Si può solo rimanere affascinati da una scena di battaglia di Troy, che molto deve ai progressi tecno-grafici apportati dallo staff della WETA per la trilogia tolkeniana, ma nulla più di questo. Troy si manifesta come una fasta e mirifica opera architettonica: si osserva e ci si meraviglia per la sua opulenza, ma il tutto si limita a questo. Come ogni spesa che superi le primarie necessità, quale premio per la propria vanità e per la magia dello sguardo, Troy si avvolge intorno a Brad Pitt, si costruisce intorno ai suoi bicipiti e ai suoi lunghi e fluenti capelli biondi. Tra le obiezioni già mosse sull’eccessivo abbellimento cinematografico di certi personaggi storici (esempi recenti Martin Lutero e lo stesso Gesù Cristo) su Achille ci possiamo anche stare, visto che la letteratura ce lo descrive ben lontano dal modello “gladiatore” Russell Crowe. Roberto Calasso ne Le nozze di Cadmo e Armonia ci fa la descrizione di un Achille adolescente bellissimo e femmineo, perso tra le fanciulle, riconoscibile “…soltanto perché gettava indietro i capelli con un gesto più brusco…”. Così l’eroe di tutti i tempi, l’uomo più forte della storia, il prode Achille, se ne stava rifugiato vestito da donna, con la sua chioma al vento, nei cortili di una residenza reale. Detto ciò ci sentiamo di mettere in guardia gli studenti che pensino di guardare Troycome un Bignami dell’Iliade: le licenze e le divergenze rispetto al testo sono moltissime: tra l’altro scopriamo una nuova parentela tra Achille e Patroclo; il primo si trova poi per motivi drammaturgici tra il manipolo di soldati che si nasconde nel cavallo di Ulisse; facciamo infine anche l’alquanto prematura conoscenza di un giovanissimo Enea che sarà (come Virgilio e non Omero ci narra) uno dei pochi a scampare la messa a fuoco della sua città. Il film conserva un certo sapore anni’50 nella ricostruzione degli interni, tutti allestiti negli Shepperton Studios di Londra dove Nigel Phelps (scenografo de Il collezionista di ossa, Pearl Harbor e Art Director di Batman), lavora talmente bene da riuscire a dare quella suprema contestualizzazione che è quasi assente “all’aria aperta”, dove si assiste più ad una sfilata di modelli in ‘war-suites’.
Sarebbe stato bello vedere come la moderna cinematografia digitale potesse interpretare personaggi come Zeus, Apollo e rappresentare la loro interazione con il mondo dei mortali: in effetti Phelps è l’unico a ricordarsi di loro, affermando che «i temi religiosi sono gli elementi chiave del film» e disseminando i teatri di posa da lui allestiti di statue votive e grandi bracieri.
Le battaglie sono essenzialmente efficaci, anche se come già detto molto dipendono da Il Signore degli Anelli. Non possiamo tralasciare lo sforzo organizzativo volto a formare un esercito di 1000 messicani con 250 bulgari addestrati, chiamati ad interpretare una “prima linea” dalle fattezze più indoeuropee. Per questo il merito va all’ex-ufficiale della British Army Richard Smedly, come per la scena delle 1000 navi greche in mare si deve ringraziare la Framestore CFC, società di produzione effetti digitali visivi, già vista all’opera in Underworld e che presto rivedremo in Harry Potter e il prigioniero di Azkaban. La prova dei dialoghi è sempre in perdita, e la scelta di incentrare le vicende intorno alla sola figura di Brad Pitt fa svalutare la prestazione dell’attore, molto più adatto in altri ruoli. Evidentemente Benioff si è voluto distanziare da tutta quella tradizione di cinema “troiano”, mai concentrica ma piuttosto corale, allontanando il proprio Achille da quello di Giorgio Rivalta ne La guerra dei Troiani, di Marino Girolami nella sua opera omonima, di quello di Giorgio Ferroni ne La guerra di Troia, ma piuttosto riferendosi alle citazioni di Elena di Troia, non vogliamo pensare alla versione di Robert Wise, ma alla recentissima serie di John Kent Harrison. Sulle interpretazioni attoriali, poniamo al primo posto un Peter O’Toole in grande stile che ci regala la scena di maggiore rilievo, quella in cui Priamo (interpretato da lui) si reca nella tenda di Achille per supplicarlo affinché la salma del figlio morto venga restituita al suo popolo. Del trio di protagonisti guerrieri il meglio calato nella parte ci sembra senz’altro Eric Bana (Ettore), ma Petersen sembra aver dimenticato che nel 1200a.C. si vivesse in funzione di una sentita religiosità politeista: qui l’unico vero Dio è Brad Pitt, adorato con la macchina da presa, considerato da tutti come l’unico fulcro d’azione, amato e temuto, sia sulla scena che sul campo di battaglia. Nel complesso Troy si identifica e si definisce con le caratteristiche dell’omonima città: si rimane affascinati e atterriti dalla grandezza delle sue mura, dalla magnificenza del complesso, ma se al suo interno si va ad inserire un idea, un pensiero, tutta la struttura narrativa viene giù come un castello di carte.
di Alessio Sperati