«Lui era un veicolo dentro il quale i personaggi correvano veloci come fantasmi. Ma anche un veicolo vuoto può diventare eccessivamente affollato». In questo modo Stanley Kubrick definì non solo le particolari capacità trasformistiche di Peter Sellers ma soprattutto tratteggiò per primo il ritratto di un uomo in preda ad una fragile immaturità emotiva che condizionò la sua intera esistenza. Infatti, se da una parte il mondo ha riconosciuto senza alcuna contestazione il talento attoriale di Sellers, dall’altro ha ignorato le zone d’ombra di un percorso compiuto per raggiungere fama e riconoscimenti, lungo il quale, però, l’attore ha perso il contatto con la realtà. Ed è proprio da questo punto di partenza che prende vita il film di Stephen Hopkins, il cui compito è stato quello non di celebrare una star conclamata, ma di ricercare e rintracciare l’uomo dietro le mille maschere indossate sotto la luce dei riflettori. Un compito certo complesso non solamente perché si basa su un meticoloso lavoro di ricerca e di ricostruzione, ma soprattutto perché, alla fine del percorso, si corre il rischio di trovarsi di fronte ad un essere incompiuto e sconosciuto forse anche a lui stesso. In definitiva Sellers, lontano dal set e dai clamori della fama, rappresentò per molti un enorme punto interrogativo, un’incognita, un bambino capace di nascondersi dietro la finzione dei suoi molti travestimenti per simulare una realtà sconosciuta.
Dunque come dare corpo a quest’uomo dai tratti delineati esclusivamente da un talento spesso ingombrante? Hopkins ha scelto di continuare a giocare con la sovrapposizione e l’illusione, regalando a Peter Sellers il piacere o la dannazione di indossare una nuova ed impegnativa maschera: quella di se stesso. Geoffrey Rush, che tra l’altro ha ottenuto il Golden Golbe come miglior attore proprio grazie a questa interpretazione, ha plasmato volto, andatura ed intonazione per lasciare che l’attore inglese tornasse a vivere, per regalargli la nuova ed imprevista occasione d’interpretare da protagonista la sua stessa esistenza. Se poi il contorno non si riduce ad una semplice ed accurata riproduzione degli ambienti e dell’epoca, ma si concentra su una quella, quasi teatrale, di una esistenza vissuta sempre in bilico tra finzione filmata e finzione ostentata quotidianamente, si comprende come il film possa arricchirsi di un valore evocativo aggiunto. Rush si trasforma in Peter che diventa l’Ispettore Clouseau e Il Dottor stranamore, per poi rivestirsi dei tratti più miti del tranquillo uomo che fu suo padre, della costanza che fu di una madre fin troppo ambiziosa e dell’amore deluso di una moglie conquistata dal suo istrionismo ma incapace di comprendere per lungo tempo un marito eterno bambino. Ma soprattutto Stephen Hopkins ha realizzato un film continuamente in fieri, sospeso tra dramma ed ilarità all’interno del quale spesso non si nascondono gli artifici di un set, quasi a dimostrare che l’intera vita di Sellers non fu altro che una finzione cinematografica.
di Tiziana Morganti