“Non c’è terreno migliore del successo, per alimentare il dubbio”. Lo afferma l’artista svizzerp Alberto Giacometti nel film Final Portrait L’arte di essere amici, scritto e diretto da Stanley Tucci, splendidamente interpretato da Geoffrey Rush e Armie Hammer dall’8 febbraio nei cinema con BIM. La storia nasce dall’autobiografia del newyorkese James Lord che nel 1964, durante un soggiorno a Parigi, fu invitato dall’amico Giacometti a posare per un ritratto. Le sedute dovevano durare poche ore ma si protrassero per diciotto giorni, ritardando il ritorno a casa dello scrittore che si trovò suo malgrado immerso in un mondo dominato da bellezza, frustrazione, profondità, caos, difficoltà del processo artistico, facendo attraverso il libro un’analisi acuta e illuminante dei dilemmi dell’artista.
Tucci crea un affascinante, intenso ritratto di un genio attraverso la storia di un’amicizia tra due uomini profondamente diversi, eppure uniti da un atto creativo in costante evoluzione. Visto il budget molto limitato, l’autore è ricorso alla computer grafica per ricreare alla perfezione le atmosfere della Parigi anni ’60, affidando a tre giovani artisti la riproduzione delle sculture del Maestro.
L’attrice Sylvie Testud è Annette, la moglie dell’artista provata dal peso della vita accanto a un uomo tormentato. La sceneggiatura riesce ad andare al di là di questa ossessione amorosa e a cogliere la sostanza del loro rapporto. C’è un lato comico in tutto questo, che nel film emerge quasi spontaneamente.
Il regista voleva a tutti i costi evitare il classico biopic incentrato sugli eventi memorabili che costellano la vita di un artista. Qui non accade niente di eclatante: ci sono solo il disordine e la polverosa confusione di uno studio fatiscente in cui l’artista vive e lavora da anni. E tanta, tanta poesia.
Abbiamo incontrato il regista a Roma e gli abbiamo chiesto come sia nato questo bellissimo film.
“Non credo nelle biografie, sono un susseguirsi di eventi condensati in due ore, preferisco concentrarmi su un ambito ristretto di vita per cogliere l’essenza della persona. Ho scelto alcune esperienze della vita di Giacometti e le ho collocate in un microcosmo che rispecchiasse quello che l’artista era dentro e fuori del suo studio. Quando fai un film su personaggi realmente esistiti è importante essere fedeli alla realtà, ma devi anche prenderti qualche licenza poetica”.
Cosa l’ha spinta a raccontare proprio questa storia?
Vengo da una famiglia di artisti, sono cresciuto osservando mio padre mentre dipingeva e posando per lui, all’università ho studiato disegno, certi insegnamenti ti accompagnano tutta la vita. Ho scritto questo film più di dieci anni fa, mi ha sempre interessato capire perché un artista fa quello che fa, il rapporto col suo lavoro e con la società. Sono da sempre un grande appassionato di Giacometti, era uno degli artisti più interessanti e più colti del suo tempo, dotato anche di un gran senso dell’umorismo, il libro di Lord esprime bene il suo processo artistico con tutte le sue emozioni.
In che modo sceglie tra dirigere un piccolo film indipendente come questo e interpretare grandi produzioni hollywoodiane?
E’ il quinto film che dirigo, dopo il terzo ha soprasseduto per otto anni, era difficile trovare i finanziamenti per fare a modo mio il ritratto intimo di un personaggio. Un grosso film ti fa guadagnare tanti soldi, ho cinque figli da mantenere e un mutuo, sono comunque tutte esperienze dalle quali impari sempre qualcosa.
Il rapporto tra l’artista e lo scrittore era proprio come ce lo mostra nel film?
Sadismo e masochismo sono connaturati in ogni artista. Ho descritto esattamente quello che mi è stato raccontato da alcuni suoi ex modelli, allora giovanissimi, che all’inizio erano affascinati dai suoi modi fino a che in lui subentrava la rabbia, la depressione.
Anche lei va alla ricerca della perfezione?
Assolutamente, ma più che la perfezione io cerco la verità. Un film è come un dipinto, l’ansia verso la creazione di qualcosa di emozionante è anche la mia. Nel film mostro il ritratto con cautela, mi interessava di più far emergere come lui si misura con la propria opera. Si ha l’impressione che sia pazzo, invece è la sua capacità di andare oltre a ciò che ancora non c’è, la sua visione del futuro.
Rush si è lasciato invecchiare, ingobbire, mettere una protesi alla bocca per somigliare nel fisico perfettamente a Giacometti. Come ne ha ricreato le ansie?
Geoffrey è un attore che si immerge totalmente nei personaggi che interpreta e sa essere incredibilmente affascinante e divertente sullo schermo, era l’interprete ideale. Ha avuto due anni per documentarsi mentre noi cercavamo i finanziamenti. Prima di girare abbiamo provato una settimana come fosse una pièce teatrale, sfrondato i dialoghi, volevo creare una fisicità che corrispondesse ai sentimenti. Lui si è sentito subito a suo agio negli scatti di rabbia e coi pennelli, non fermavo mai la macchina da presa per cogliere ogni sfumatura della sua innata spontaneità nel recitare il ruolo.
Come giudica la vita di Giacometti dal punto di vista etico?
Ha dedicato anima e corpo al suo lavoro, ma questa sua devozione non corrisponde all’etica morale nella vita. Era come un bambino egoista con un fratello e una moglie giusti per spalleggiarlo. Non ha importanza se le sue scelte di vita fossero etiche, aveva il consenso di chi lo circondava.
In un’ epoca di selfie è ancora valida la sua lotta con le immagini?
La sua pittura è senza tempo, molto moderna, in particolare le sue sculture, gli hanno permesso di esprimere al meglio le sue qualità umane. Spero che vedendo questo film il pubblico capisca che anche se un artista prende molto sul serio il suo lavoro, c’è sempre qualcosa di ironico e paradossale nel processo creativo. E’ un processo che non si ferma mai.