Non c’è cosa che dia più fastidio al cinema che gli involontari rifacimenti e in generale i film consolatori conditi con la memoria e il tono da favola poetica. Chi scrive persegue una personalissima crociata verso chi mette troppo di suo, troppo lirismo, una smazzata di sentimenti, il famigerato “cuore d’artista”. Non perché questo lungometraggio non sia alla fine gradevole, ma solamente perché va dritto verso un generico senso di spiritualità, abbastanza ripugnante, perché questo termine, che sta sulla bocca di troppi registi (Ozpetek, in primis), si attaglia bene per le catene di Sant’Antonio fino ad improbabili sette filantropiche. Sarà aridità, ma questo filone di finto realismo “magico” sta superando il limite e di nonni, di zie, di amori lontani la misura è colma. Ci vogliono trasformare in un esercito di piagnoni senza reale melodramma? Il mercato richiede cuori frolli?
E poi l’uso improprio della Storia (che siano i colonnelli greci del 1967 o governi “provvidenziali” dei giorni nostri poco importa), per rendere nobili (e noi ricattabili emotivamente) le gesta private di una famiglia costretta a lasciare Istanbul per Atene è un’ulteriore manata in faccia, giacché il regista non si preoccupa minimamente di spiegare il perché e di tanto astio intercorso tra Grecia e Turchia, ma utilizza una kermesse “politica” come sfondo ai sogni ad occhi aperti di un infante cuoco di nome Fanis che da grande diventa astronomo fisico e che, sprezzante di trentacinque anni di attualità simil “europeista” sta lì a sfiancare con le polpette di nonno e della fidanzatina settenne aspirante ballerina. Se si sorride e ci si emoziona è perché si sono giocate tutte le carte di un certo cinema “anima e core”: Amelie, Chocolat e solamente le virtù culinarie di un cult movie come Il pranzo di Babette. Troppo o meglio troppo poco, ma il rischio reale è che, il sabato sera, si possa decidere di rimanere in babbucce davanti ad un anonimo thriller di serie B in televisione. Ma certamente è una visione parziale.
di Vincenzo Mazzaccaro